mercoledì 17 settembre 2008

Morte: quando? Parte 2


Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara.


Leggo nell’articolo di Lucetta Scaraffia cui facevo riferimento all’inizio:


Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".


Mi sia consentito replicare sommessamente a Singer che il problema non è “cattolico”: i teologi cattolici esprimono posizioni coerenti con la teologia partendo dai dati di ragione forniti da altre discipline. E ciò che stride è proprio che in realtà il comportamento consigliato dai teologi morali di fede cattolica è coerente con le coordinate espresse finora: il paziente anencefalico dovrebbe essere (e in Italia lo è!) monitorato per tutta quella parte di encefalo che ha e solo al raggiungimento del silenzio elettrico è dichiarato morto! Si applica proprio in questo caso-limite tutta la prudenza invocata prima: se bastasse solo un EEG, visto che non c’è niente da controllare (il bimbo anencefalico ha solo piccole parti di cervello, spesso non la corteccia) sarebbe dichiarato morto subito. Invece si va oltre, si aspetta che ogni più piccolo segnale sia cessato, e si aspetta che sia cessato per un tempo doppio rispetto all’adulto perché conosciamo la maggiore resistenza del tessuto nervoso del neonato all’anossia.


Se si ragionasse nei termini di “assenza di coscienza” (senza corteccia cerebrale non c’è coscienza) si darebbe ragione al signor Singer, il quale, dal canto suo, non ha neppure bisogno dell’EEG per dichiarare un essere umano una non-persona: per lui fino a quando non si hanno capacità di parola e relazione, non si ha dignità umana! Se si ragionasse nei termini di vita degna-non degna, si potrebbero accelerare i tempi di morte di pazienti senza corteccia funzionante (senza capacità di relazione), ma con il cuore che batte da solo e con i polmoni che scambiano anidride carbonica con ossigeno.


Invece la testardaggine tutta cristiana di appoggiarsi al dato reale ci protegge fino in fondo. Quando sussiste segno di vita, è vita. Bella, brutta, gradevole o puzzolente, è vita.


Ma nell’articolo uscito il 3 settembre, si riportava anche un’altra affermazione francamente sorprendente:


Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”.


Forse fraintendo, me lo auguro, ma qui c’è un invito a prescindere dai fatti. Che cosa può appoggiare legittimamente il giudizio se non la conoscenza del fatto, nella misura che è possibile alla ragione e all’esperienza? Quando la morte si accertava con lo specchietto (se si appannava, si era vivi; se no, si era sepolti. E per giunta senza aspettare troppo tempo, per via della puzza) si commettevano delitti contro l’etica o contro la buona pratica clinica? E poi la verità su cui appoggiare il giudizio dovrebbe scaturire dall’accordo su ciò che è giusto? Mettiamo ai voti i criteri di accertamento della morte?


Il problema etico è di (apparente) semplice soluzione: si dispone con rispetto del cadavere, si tratta con rispetto il vivente. Mi pare superfluo soffermarmi sulla differenza tra “disporre” e “trattare”.


La natura di cosa, ancorché nobile, del corpo morto attiene alla sostanza cadaverica; la natura di persona del corpo vivente attiene alla sostanza di essere. L’una e l’altra vedono nei loro confronti applicata l’etica quando ricevono un trattamento adeguato alla rispettiva natura.


Il problema giuridico è più complesso perché si tratta di tradurre in pratica norme valide per ogni situazione. E in un panorama etico e sociale diviso, anzi, frammentato, come il moderno, questa è operazione sempre più complessa. Ma se anche la legislazione si allontana dalla concretezza del dato conosciuto e onestamente riconosciuto, e se cade nel tranello della concertazione, allora non so immaginare quale possibilità possa avere l’etica di trovare un fondamento comune.

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