domenica 31 agosto 2008

L'Orso e l'Aquila


Quarant'anni fa i carri armati russi facevano il loro ingresso a Praga per reprimere una volta per tutte l'intrepido tentativo della classe politica e del popolo cecoslovacchi di introdurre alcune riforme democratiche in uno dei sistemi più immobilizzati di tutta la compagine sovietica. Il movimento riformatore durò da gennaio ad agosto, quindi fu bruscamente interrotto dall'intervento delle truppe del Patto di Varsavia. Questa fase venne poi chiamata «Primavera di Praga». I carri armati russi restarono a presidiare la Cecoslovacchia per 23 anni.


Quella del 2008 era attesa come un'estate olimpica di ordinario entusiasmo. Non è stato così. Forse in futuro verrà ricordata come «Estate georgiana» o forse si dirà semplicemente che in questa stagione l'Orso russo si è risvegliato e ha voluto mettere in chiaro che non gradisce più veder svolazzare l'Aquila americana troppo vicino alla sua tana. Sembra una favola d'Esopo, ma è la realtà che tutti i giorni ci si presenta al risveglio. Per la prima volta dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, Mosca ha ufficialmente lanciato una campagna bellica contro uno Stato sovrano.


Le operazioni miliari russe contro la Georgia hanno aperto, di fatto, una nuova fase dell'era post-sovietica: l'obiettivo è quello di arrestare l'espansione della NATO verso est e di vendicare definitivamente le umiliazioni subite dall'impero in declino all'inizio degli anni '90. Questo conflitto è scoppiato otto mesi dopo la rielezione del presidente georgiano filo-occidentale Saakachvili, sei mesi dopo la dichiarazione di indipendenza della provincia serba del Kosovo (17 febbraio 2008) e quattro mesi dopo il summit NATO di Bucarest. Quest'ultimo viene ricordato per i profondi dissensi tra i paesi membri in merito all'avvicinamento all'Alleanza di Ucraina e Georgia, sponsorizzate dagli USA e ostacolate da Francia e Germania.


Dopo aver perso lo status di superpotenza, la Russia si è impegnata a riacquistare la sua influenza regionale, decidendo di riappropriarsi dei suoi interessi nella regione del Mar Nero: zona di altissima valenza simbolica e di pari importanza strategica. Dopo il crollo dell'URSS, al Cremlino è rimasto, infatti, il controllo di una striscia di territorio rivierasco che va dalla città di Sochi (sede già designata delle Olimpiadi invernali del 2014) al mare di Azov, di fronte all'Ucraina. Proprio in questo paese, a Sebastopoli, i russi hanno mantenuto le basi navali per la flotta del Mar Nero; l'accordo con l'Ucraina scadrà solo nel 2017, ma la mobilitazione della flotta contro la Georgia, negli scorsi giorni, ha provocato profondi dissapori tra gli esecutivi di Mosca e Kiev.


I conflitti «congelati» si sono d'un tratto infiammati e rischiano di incendiare la regione. Eppure, nel luglio 1997, durante il vertice NATO di Madrid, i rapporti tra l'Alleanza e la Russia sembravano essersi addolciti parecchio, tanto che era stato avviato un nuovo fondamentale capitolo nelle relazioni NATO-Russia, con la decisione di istituire un foro privilegiato per la cooperazione e la sicurezza tra l'Alleanza e l'ex-nemico: il Consiglio Permanente Congiunto NATO-Russia (PJC). Lavoro sprecato, a quanto pare. Durante la riunione della NATO del 19 agosto il segretario generale ha dichiarato che tra la Russia e l'Alleanza niente sarà più come prima, anche se il PJC non cesserà di esistere; eppure la marina russa ha già cancellato la propria partecipazione alle manovre congiunte nel Mar Baltico. Intanto, USA e Polonia hanno siglato l'accordo per installare una batteria di missili Interceptor sul suolo polacco e, in pochi mesi, lo stesso accordo sarà siglato con la Repubblica Ceca per il posizionamento di un radar di supporto.


Si ritorna a Praga dunque, quarant'anni dopo. Gli orsi non tollerano che altri animali si avvicinino troppo alla loro tana. Sembra una favola d'Esopo, ma è la realtà.


di Alessandra Poggi

mercoledì 27 agosto 2008

Davanti ai massacri anticristiani la tiepida laicità europea non basta


Tra l’estremismo indù che nell’Orissa brucia vive le suore e il grande happening religioso alla convention democratica di Denver, l’Europa sta a guardare, forte della sua superata concezione della religione e della laicità, che non ci difende dai massacri terroristici né ci protegge dalla religione-spettacolo dei buoni sentimenti.


In Europa vige ancora l’idea, di origine weberiana, che la società non può accettare una morale della convinzione, che si tradurrebbe in una lotta di tutti contro tutti, in quanto contrasterebbe con il pluralismo dei valori delle società moderne, ma solo una morale della responsabilità, nella sostanza un relativismo etico che cerca di ridurre i danni delle conseguenze delle nostre scelte, tutte ammesse. Habermas vede la società come una “immensa discussione”, vale a dire come una grande contrattazione dialettica a cui tutti abbiano accesso.


Ora, gli estremisti dell’Orissa, con le loro atroci azioni, mettono a nudo la fragilità di queste visioni deboli della laicità, come del resto hanno fatto qualche anno fa gli abitanti delle banlieau parigine e fanno adesso a Londra 4 cittadini musulmani su 10 secondo cui bisognerebbe introdurre la sharia nell’ordinamento inglese. Se fosse per loro, il pluralismo nel senso weberiano o habermasiano del termine sarebbe solo una parentesi storica. Del resto, la tiepidezza con cui l’Europa accoglie le tragiche notizie delle persecuzioni dei cristiani in oriente e la indisponibilità a farsi carico della loro protezione, come se l’Occidente potesse rimanere equidistante dalla religione della suora arsa viva e da quella degli aguzzini indù, la dicono molto lunga sul nostro concetto di laicità, vuoto di senso e paralizzante qualsiasi azione pubblica che non sia di indifferenza.


Ma rimaniamo spiazzati anche dalla massiccia presenza della religione nella convention democratica di Denver. Negli Stati Uniti è possibile non credere ed essere americani lo stesso. E’ però possibile anche credere ed essere americani lo stesso. Citare Tocqueville non è solo questione di circostanza: ”La libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi, i costumi come la garanzia delle leggi e il pegno della sua durata”. Il problema è piuttosto un altro: alla convention di Denver non è nata una superreligione piuttosto sincretista, fatta di slogans ad effetto, di generiche promesse di giustizia e pace, una miscela indistinta accomunata da un generico misticismo e da un “messianismo senza Dio”? La cartina al tornasole qui è data dal tema della vita: tutti i gruppi religiosi che hanno sostenuto Obama a Denver non sono stati in grado di accordarsi sulla questione dell’aborto, né hanno saputo chiedere al candidato un impegno chiaro in questo senso. Né lui l’ha richiesto.


Viene in mente quanto Joseph Ratzinger diceva ad Habermas nell’incontro pubblico di Monaco di Baviera del 2004: sia la religione che la ragione hanno le proprie patologie ed hanno bisogno l’una dell’altra per correggerle. L’estremismo fondamentalista è una religione impazzita che ha bisogno di ritrovare la ragione. La ragione che non riconosce i propri limiti davanti al diritto alla vita ha bisogno di essere corretta dalla religione. Senza questa doppia correzione reciproca, la religione tende a farsi confusamente politica, ossia a dare ragione a Weber che vorrebbe tenerla alla larga dalla vita pubblica, e la ragione tende a farsi antireligiosa, almeno nella forma dell’indifferenza. Però una religione tenuta alla larga dalla vita pubblica non riesce a correggere le disfunzioni e le contraddizioni della ragione politica e non permette a quest’ultima di moderare la presenza religiosa nella società.


Il dialogo tra le religioni è fondamentale per il futuro. Perché esso sia possibile è necessaria la libertà religiosa, cioè il riconoscimento razionale di un diritto fondamentale dell’uomo. La religione ha bisogno della ragione. Ma ci sono religioni che misconoscono questo diritto, non tutte le religioni accettano la ragione. Ecco perché la ragione diventa fonte di discernimento delle religioni. In fondo Benedetto XVI a Regensburg il 12 settembre 2006 aveva sostenuto proprio questo.


di Stefano Fontana

Tutte le persecuzioni dei cristiani nel mondo


L’India è lo specchio del mondo. Quello che accade qui vale anche altrove. Accade in Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Algeria. Sudan, ultimamente anche in Egitto. È un attacco pesante, che ha radici forti e non risparmia nessuno. Le comunità cristiane locali danno fastidio perché con la loro stessa esistenza diffondono una religione, una cultura e un sistema di vita fondati sul valore assoluto della persona umana, quindi sulla libertà, l’eguaglianza di tutti di fronte allo Stato, la donna con gli stessi diritti dell'uomo, la democrazia, la giustizia sociale.


Ecco perché le persecuzioni anti-cristiane dovrebbero interessare molto di più giornali, televisione, programmi culturali e università. Questa violenza non riguarda solo una religione, quella cristiana, ma un intero sistema di valori, visto che il cristianesimo è alla radice del nostro modo di vita occidentale. Non illudiamoci, oggi la persecuzione anti-cristiana è contro l'Occidente democratico e dei diritti dell'uomo e della donna. Se nei Paesi altri risultassero vincenti l’ideologia indutva e il fondamentalismo islamico, o anche il comunismo del boom economico di Cina e Vietnam, sarebbe in pericolo non il cristianesimo (noi crediamo per fede che non corre questo rischio), ma l’Occidente stesso. È questo il problema. Questo è il dramma.


L’indutva, cioè l’ideologia religioso-culturale-politica del nazionalismo indiano, ha molte radici tra cui anche quella religiosa e non è facile per il Paese liberarsene. E la cronaca lo conferma. Il fatto grave degli assalti ai cristiani nello stato di Orissa è la continuità di queste manifestazioni d’intolleranza indù, strumentalizzata dal Bharatiya Party, verso le minoranze religiose: i musulmani (circa il 13% degli indiani), ma questi rispondono colpo su colpo, mentre i cristiani (2,5%) si difendono, ma senza odio e senza sentimenti di vendetta e di rivalsa. L’opinione pubblica occidentale è abituata a pensare che i cristiani sono perseguitati soprattutto nei Paesi islamici o a regime comunista. Ma sta venendo alla ribalta il fondamentalismo indù, che le autorità di un Paese democratico come l’India tollerano o non riescono a dominare. Quel che preoccupa la Chiesa indiana, e dovrebbe ottenere maggior attenzione nei mass media occidentali, non sono i singoli casi di persecuzione, ma l’atmosfera generale d'intolleranza che sta crescendo nei confronti dei cristiani. È bene anche conoscere i motivi di questa persecuzione. Un volantino, distribuito a Bangalore nel Natale 2007 elenca i «crimini» dei cristiani: trattare tutti allo stesso modo, educazione delle donne, rifiuto del sistema delle caste. Nel testo, firmato da gruppi nazionalisti indù, si legge che i cristiani dello Stato meridionale del Karnataka «devono abbandonare immediatamente il territorio indiano, oppure tornare alla religione madre dell'induismo». Altrimenti «dovranno essere uccisi da tutti i bravi indiani». In questo elenco dei «crimini» cristiani manca il principale. Le chiese, le loro scuole e opere di promozione umana, lavorano soprattutto fra i più poveri, che sono i «paria» (fuori casta), circa 130 milioni su un miliardo e 60 milioni, ancor oggi discriminati. Grazie alle scuole missionarie si è creata nei «paria» una coscienza nuova dei loro diritti e questo dà fastidio sia ai rigidi custodi della tradizione religiosa (che considera i paria «intoccabili» per motivazioni religiose), sia a tutti quelli (specie proprietari terrieri) che li hanno sempre considerati come servi della gleba. È questo che fa paura: la libertà cristiana e occidentale.


Piero Gheddo (Il Giornale)

sabato 23 agosto 2008

Alle radici della guerra in Ossezia cap. 2


Il 23 novembre 1989 una folla di nazionalisti georgiani marcia su Tskhinvali, venendo però respinti dalla guarnigione sovietica. Il 20 settembre 1990 l'Ossezia del Sud proclama la sua indipendenza. A ottobre gli osseti boicottano le elzioni georgiane. Il 10 dicembre 1990 è la Georgia a dichiarare illegale il voto osseta, sopprimendo anzi l'autonomia della Provincia. L'11 scorre a Tskhinvali il primo sangue. Il 12 il governo georgiano proclama lo stato d'emergenza, mandando milizia e polizia a disarmare i gruppi armati osseti. Il 5 gennaio l'ingresso di questi reparti a Tskhinvali accende formalmente il conflitto. Una prima tregua salta quando il 29 gennaio il presidente del Soviet Supremo Osseta Torez Kulumbegov si reca a Tblisi per negoziare, ma non appena arriva è arrestato per istigazione all'odio etnico. Verrà poi rilasciato nel dicembre del 1991, ma nel frattempo c'è stata un'escalation, con il blocco della Georgia agli osseti e i massacri commessi dagli osseti in vari villaggi georgiani. Risultato: almeno 80.000 profughi. Nel febbraio del 1992 truppe russe cominciano a intervenire al fianco degli osseti. Ma già il 6 gennaio 1992 il presidente georgiano Zviad Gamsakhurdia è rovesciato da un golpe-insurrezione pure appoggiato da Mosca, e al suo posto è andato Eduard Shevardnadze, l'ex-ministro degli Esteri dell'Urss di Gorbaciov. Il 24 giugno 1992 Shevardnadze e Eltsin concordano un cessate il fuoco che congela la situazione: dopo 3000 morti, l'Ossezia del Sud e l'altra regione ribelle dell'Abkhazia restano in un limbo di indipendenza di fatto, non riconosciuta da nessuno. Il 14 luglio inizia a funzionare una commissione mista per il controllo dell'armistizio, con pattuglie miste di georgiani, russi e osseti. Il 30 ottobre 1995 i governi georgiano e sud-osseta si accordano per un negoziato, sotto la mediazione di Russia e Ocse. E nel maggio 1996 Shevardnadze firma con il presidente sud-osseta Ludwig Chibirov un memorandum sul modo di provvedere sicurezza e mutua fiducia.


Malgrado la "mutua fiducia", però, i rifugiati non tornano se non in minima parte, anche per le difficili condizioni economiche. E d'altra parte i conflitti irrisolti in Cecenia e tra Armenia e Azerbaigian trasformano tutta l'aria in una polveriera, creando un clima di instabilità in cui si inseriscono le mafie, trasformando l'Ossezia del Nord in una loro roccaforte da cui partono traffici di ogni sorta, proprio profittando dello status incerto dell'Ossezia del Sud. La stessa Ossezia del Nord è colpita dalla vendetta del terrorismo ceceno, con la strage di Beslan. Nel novembe del 2003 il malcontento del nazionalismo georgiano è una delle componenti di quella Rivoluzione delle Rose che fa saltare Shevardnadze. Contro il nuovo presidente Mikheil Saakashvili, con la sua linea filo-occidentale, i russi appoggiano la rivolta del governo autonomo dell'Ajaria: regione di quella minoranza di georgiani che invece che la religione ortodossa seguono quella islamica. Ma nel maggio manovre militari georgiane combinate a manifestazioni dell'opposizione ajara provocano la caduta del presidente ajaro Aslan Abashidze, che si proclama fedele a Shevardnadze, ma che è costretto a sua volta all'esilio.


È appunto questo successo che incoraggia Saakashvili ad andare avanti sui suoi programmi di "riunificazione nazionale". All'inizio in modo pacifico, con l'offerta a Ossezia del Sud e Abkhazia di aiuti umanitari, "un'autonomia su standard europei" e un'ampia amnistia. Ma presto le opposte forze armate iniziano a fronteggiarsi col fucile alla mano, a minacciarsi, a prendere prigionieri, a spararsi addosso. Varie centinaia di "volontari" russi, principalmente cosacchi e nord-osseti, iniziano ad affluire per "difendere" l'Ossezia del Sud. Già nell'agosto del 2004 gli scontri provocano la morte di 16 georgiani e di "varie decine" di russi e osseti. Un ultimo accordo di "smilitarizzazione" tra le parti è firmato con la mediazione russa il 5 novembre 2004. Ma il 6 dicembre 2005 l'Ocse dichiara il suo appoggio al piano di Saakashvili per la reintegrazione di Abkhazia e Ossezia del Sud nella Georgia, dando spunto allo stesso Saakashvili per dichiare ormai "concluso" il ruolo russo di mediazione e peace-keeping. Il 3 settembre 2006 truppe sud-ossete aprono il fuoco contro un elicottero che trasporta il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore georgiani. Il 31 ottobre del 2006 la polizia sud-osseta afferma di aver ucciso un gruppo di 4 "terroristi" ceceni al servizio della Georgia, accusati di voler compiere attentati nel giorno del referendum sull'indipendenza del 12 novembre. Tblisi smentisce, ma lo stesso giorno del voto giorno in cui nelle aree ossete sotto controllo georgiano è eletto un governo filo-Tblisi sotto la presidenza di Dmitry Sanakoyev, alternativo a quello indipendentista di Eduard Kokoity: un sempre più evidente tentativo di ripetere la mossa ajara. Il 10 maggio 2007 Sanakoyev è nominato da Saakashvili alla testa della nuova "Entità Amministrativa Provvisoria Sud Osseta": decisione cui segue lo stabilimento di una Commissione che studia il nuovo status della regione, mentre inizia nelle aree ossete sotto controllo georgiano una politica di massicci investimenti.


Il 7 agosto 2007, un anno fa esatto, un missile cade su un villaggio georgiano, senza esplodere: Tblisi accusa due caccia russi, che avrebbero mirato a un'installazione radar. La Nato conferma l'accusa, che Mosca respinge. Tra il 14 e il 15 giugno 2008 sud-osseti e georgiani si sparano addosso, accusandosi a vicenda di aver iniziato e provocando un morto e 4 feriti. Il 3 luglio 2008 un ufficiale della polizia sud-osseta è ucciso in un bombardamento aereo. Il 4 luglio due miliziani osseti muoiono nell'attaco a un posto di polizia, seguito da un bombardamento che provoca un altrro morto, e che la Georgia dice di aver effettuato per difesa. Il 6 luglio 4 abkhazi muoiono e sei altri sono feriti dall'esplosione di una bomba di cui l'Abkhazia accusa i georgiani e i georgiani una provocazione russa. Il 7 luglio c'è un altro conflitto a fuoco. L'8 luglio quattro soldati georgiani sono presi prigionieri e poi liberati. Il 9 luglio i jet russi sorvolano l'Ossezia del Sud, provocando il richiamo dell'ambasciatore georgiano a Mosca, proprio mentre Condeleeza Rice è a Tblisi per appoggiare la richiesta georgiana di adesione alla Nato. Il 15 luglio sia gli Stati Uniti che la Russia iniziano manovre militari inb Caucaso. Il 19 luglio un posto di polizia georgiano è attaccato da abkhazi, con il risultato di un morto. Il 29 luglio Ossezia del Sud e Georgia si accusano a vicenda di attacchi. Tra il primo e il 2 agosto si acccende una battaglia che provoca sei morti e 21 feriti, e che è seguita da altri scontri sporadici durati fino al 6. Il 7 un bombardamento dell'artiglieria georgiana provoca 4 morti. Dopo un effimero cessate il fuoco, l'8 agosto si scatena l'assalto georgiano "per restaurare l'ordine costituzionale nell'intera regione". Ma i georgiani oltre ai sud-osseti si trovano di fronte anche le forze di peace-keeping russe, accendendo una battaglia che provoca ormai oltre 1400 morti.
L'Occidentale 9 Agosto 2008

Alle radici della guerra in Ossezia cap. 1

Ricordate i Cavalieri Sarmati del film del 2004 King Arthur? Sia gli Osseti del Nord vittime del terrorismo islamico a Beslan, sia quegli Osseti del Sud che stanno ora attizzando a una vera e propria guerra tra Russia e Georgia sono loro discendenti. Sarmati e Sciti, noti agli antichi greci e romani, erano una serie di tribù di pastori e cacciatori nomadi, ma in alcuni casi anche di agricoltori. Abitavano nei territori delle attuali Polonia, Ucraina e Russia meridionale, parlavano dialetti del gruppo iranico nord-orientale. Furono loro, riferiscono le cronache classiche, a inventare lo spinello, aspirando il fumo della canapa indiana chiusi dentro a una specie di "sepolcri". Furono loro a ideare pure quell'armatura per cavalieri catafratta che copiata poi da persiani, romani e germani avrebbe dato origine alla cavalleria medievale. Gruppi di sarmati e sciti resi vassalli di unni, goti e vandali parteciparono al grande assalto all'Impero Romano, contro la cui espansione si erano a lungo opposti. Pur non trascurando, in molti casi, di servire nelle Legioni come mercenari. Un gruppo di loro a un certo punto riuscì a ritagliarsi in Spagna e in Francia del Sud regni indipendenti, che furono però poi riassorbiti dallo Stato Visigoto. Era la tribù dei cosidetti Alani, selezionatori anche del famoso cane che avrebbe preso il loro nome (anche se probabilmente il cane alano moderno non ha preso da quello antico se non la denominazione).

Più in generale, i Sarmati, Sciti e Alani sparsisi per l'Europa si sarebbero poi fusi alle popolazioni latinizzate, germaniche o slave in mezzo a cui erano finiti, perdendo completamente la proppria identità nel calderone. Ma alcuni aspetti della loro cultura sarebbero poi stati fatti propri dalla civiltà europea medievale: la già citata cavalleria corazzata, ad esempio; e anche l'uso massiccio di animali selvatici nelle decorazioni. Un popolo di contadini alani convertiti al cristianesimo da missionari bizantini avrebbe invece mantenuto la propria lingua iranica ancestrale in un angolo del Caucaso, formando tra VIII e IX secolo un regno indipendente, distrutto però dall'invasione mongola del 1238-39. Dopo di che, una parte degli alani sarebbe stata assorbita dai turchi. Un'altra parte sarebbe stata inclusa nel Regno di Georgia mantenendovi però la propria lingua, fino all'annessione della Georgia alla Russia del 1801. Una terza componente del popolo alano, infine, dopo aver sopravvissuto per secoli in una precaria indipendenza sempre in lotta con i turchi dell'Impero Ottomano e con i tatari del Khanato di Crimea, si sarebbe spontaneamente messa sotto la sovranità russa nel 1767.

La parola "osseta" viene appunto dalla denominazione georgiana degli alani, poi fatta propria dai russi. Sotto il comune dominio di San Pietroburgo georgiani e osseti, di identica fede ortodossa, si mescolarono massicciamente. Lo stesso Stalin era figlio di un osseta georgianizzato e di una georgiana: ma il particolare che alludere al suo sangue osseta fosse uno dei modi più sicuri per finire nel Gulag dimostra come questa convivenza sia stata tutt'altro che senza spine. E infatti tra 1918 e 1920 la dichiarazione di indipendenza georgiana dopo la Rivoluzione di Ottobre provocò un primo conflitto sfociato in una catena di massacri reciproci tra il governo menscevico di Tblisi e i Soviet bolscevichi in cui gli osseti si erano organizzati, con un saldo di oltre 5000 morti. Vinsero i georgiani, ma quando nel febbraio del 1921 l'Armata Rossa mosse alla riconquista della Georgia molti osseti si unirono all'esercito invasore. Nell'aprile del 1922 il governo della nuova Georgia sovietica stabilì dunque una Provincia Autonoma dell'Ossezia del Sud in cui furono inseriti varie aree a popolazione integralmente o in maggioranza georgiana. Compreso lo stesso capoluogo Tskhinvali.

L'Ossezia del Nord era stata nel frattempo inclusa nel 1921 in una effimera Repubblica Sovietica della Montagna, per poi diventare nel 1924 anch'essa Provincia Autonoma, ed essere promossa nel 1936 a Repubblica Autonoma all'interno della Russia. Confermando la loro tradizione filo-russa, al momento dell'attacco tedesco gli osseti non seguirono l'atteggiamento favorevole agli invasori di altre etnie della regione, come balkari, ceceni o ingusci. Per questo furono risparmiati dagli ordini di deportazione impartiti da Stalin per punire i "traditori", e anzi nel 1944 l'Ossezia del Nord è ingrandita con un pezzo di Ceceno-Inguscezia. Si crea insomma l'eredità di risentimenti che esploderà al momento della dissoluzione dell'Urss. Il 10 novembre 1989, in particolare, il Soviet Supremo dell'Ossezia del Sud decide la secessione dalla Georgia per unirsi alla Russia, e poter così riunificarsi con l'Ossezia del Nord.

giovedì 21 agosto 2008

Il ritorno della Russia


La questione georgiana è andata molto al di là del problema posto dal colpo di mano tentato dal governo di Saakashvili in Ossezia del Sud. E' apparso evidente che il premier russo, Vladimir Putin, ha voluto porre un cuneo tra Unione Europea e Stati Uniti. La politica di inclusione dei paesi post-sovietici nell'Unione Europea era andata parallela alla loro inclusione nella Nato. Agli occhi dei paesi dell'Est europeo l'una cosa e l'altra sembravano filare di perfetto accordo. Ora l'armonia si è dissolta perché i due sistemi, quello americano e quello europeo, hanno parlato diversi linguaggi, pur non avendo nessuno dei due la potenza di cambiare i fatti sul terreno.


L'Unione Europea ha potuto avere la parte più facile, cioè quella di proporre al governo di Tbilisi le condizioni russe; e, sul piano formale, sia il presidente russo Medvedev che quello georgiano le hanno recepite. Ma l'attacco russo in terra georgiana non è finito con la firma, da parte dei due presidenti, dell'accordo negoziato da Sarkozy. L'armata russa ha mantenuto la sua presenza in Georgia, trattandola come un paese occupato e riservandosi il diritto di saccheggio ed espulsione degli abitanti. Non è prevalsa la logica della difesa dell'Ossezia, ma quella della punizione del governo georgiano e del suo popolo, mostrando che le colpe dell'esecutivo, agli occhi di Mosca, diventavano sciagura per tutto il popolo. E' stata la prova dei fatti, con una durezza mai vista prima che ha avuto per oggetto soprattutto civili. E l'esercito georgiano non ha nemmeno combattuto: è stato sopraffatto fin dall'inizio. Così la Russia ha dimostrato il suo potere di annettere la Georgia al suo territorio trattando il popolo georgiano come un suddito ribelle.

E' apparso così chiaro che c'erano due gestori della crisi in campo russo: uno il presidente Dmitry Medvedev, che firma gli accordi con il presidente francese e riceve il segretario di Stato americano, l'altro il premier Vladimir Putin, che si muove su un piano parallelo. Il primo offre all'Unione Europea la possibilità di siglare un accordo che ratifica un diritto all'intervento russo, assicurando però lo sgombero delle truppe di occupazione. Il secondo permette di fatto all'armata russa di permanere nel territorio georgiano distruggendo strade e ponti. Il diritto formale vale per l'Unione Europea, l'occupazione reale per gli Stati Uniti. Putin ha scelto bene il suo tempo, proprio mentre gli Stati Uniti conoscono il declino della presidenza Bush e la campagna elettorale per il nuovo presidente si svolge su ben altri temi. Il fatto russo può anche incidere sul risultato elettorale. E si delinea la minaccia di portare nella enclave di Kaliningrad le testate nucleari russe: lì erano nei tempi sovietici.


Uno scenario da guerra fredda. La storia è tornata indietro quando il passato sembrava definitivamente superato. Ci vorrà del tempo prima che l'Occidente capisca di dover tornare Occidente e anche i limiti del suo poterlo fare. La Russia è tornata Russia, nazione che ha in sé il concetto di impero, non cancellato dalla fine del sistema sovietico. Ciò non significa che le cose tornino come prima: la potenza tecnologica occidentale non ha confronti con quella russa, ma il problema di definire i rapporti tra Usa, Ue e la Russia di Putin è ora riaperto e l'unità di interessi tra Europa e Stati Uniti non è chiara come anche non è chiara la differenza tra l'Europa dell'Ovest e quella dell'Est. Sicuramente il quadro politico europeo è mutato e ciò sfida l'Occidente nel suo insieme.


Gianni Baget Bozzo

Quella primavera insanguinata. La Primavera di Praga


.....La Cecoslovacchia - dopo il colpo di stato del 1948 che aveva portato al potere i comunisti - era rimasta fino agli anni '60 un tranquillo membro del Patto di Varsavia, cioè una di quelle «democrazie popolari» che nulla avevano né di democratico né di popolare e ove vigeva un regime ferreo e ottuso di stretta osservanza sovietica. Ma all'inizio degli anni '60 entrarono nel partito comunista cecoslovacco alcuni personaggi portatori di un’ideologia riformista, che mirava a uscire dalla crisi sociale e dalla stagnazione economica restando sì nel sistema politico socialista, ma emancipandolo dalla dipendenza sovietica e dalla burocrazia centralista. Sostenuti dalla élite intellettuale, costoro iniziarono una battaglia cui, nell'ottobre 1967, aderirono con entusiasmo gli studenti: senza luce e al freddo non si poteva studiare.


La svolta avvenne nel gennaio del '68 quando, durante i lavori del Comitato centrale, il primo segretario del partito comunista cecoslovacco (che come in tutti i regimi sovietici era l'uomo più potente del paese, e che allora era Novotny) fu costretto a dimettersi e a lasciare la carica a Alexander Dubcek, allora oscuro segretario del partito comunista slovacco.


Cominciavano così i mesi della grande utopia, come è stata chiamata, o della grande illusione: i mesi cioè in cui si sperò - contro ogni speranza - che fosse possibile dar vita a un "socialismo dal volto umano". Cambiano tutti gli uomini al potere (intorno a Dubcek, Cernik diventa primo ministro, Svoboda presidente della Repubblica, Smrkowsky presidente dell'Assemblea nazionale), vengono introdotti elementi di pluralismo economico e politico, la censura è soppressa, si cerca di riformare l'economia, abbandonando il centralismo e l'industrializzazione forzata (il solito mito marxista-leninista che tanti danni e lacrime ha portato ovunque). Anche la Chiesa si fa sentire e l'arcivescovo di Praga, l'eroico e indomito card. Tomasek («iurium humanorum strenuus defensor» sta scritto sulla sua tomba a Praga: strenuo difensore dei diritti umani), chiede lo scioglimento del Movimento dei preti per la pace (il solito organismo creato per motivi propagandistici dai comunisti quando vanno al potere) e lancia l'Opera di rinnovamento conciliare: così rinasce la stampa cattolica e lo Stato cessa ogni ingerenza nelle questioni ecclesiastiche.


Ma non poteva durare. Il processo di liberalizzazione allarmò pesantemente i dirigenti sovietici, che videro nella Primavera di Praga - giustamente, dal loro punto di vista - una malattia contagiosa, e dunque una minaccia per gli altri regimi comunisti.


Dubcek cercò in tutti i modi di rassicurare i sovietici, ma si illudeva. Dai verbali segreti delle riunioni del Patto di Varsavia (pubblicati sul n. 4/98 de «La nuova Europa») emerge chiaramente la preoccupazione di tutti i membri del Patto.


"Dobbiamo difendere la Cecoslovacchia - si legge - e con essa difenderemo anche tutto il blocco socialista". E così, nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968 (quando, come scrive Dubcek nelle sue Memorie, "era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito"), le truppe del Patto - 750.000 uomini e 6000 carri armati - invadono la Cecoslovacchia e mettono la parola fine alla Primavera di Praga. Dubcek, con altri esponenti politici, viene sequestrato e portato al Cremlino dove, nel tentativo di ammansire i sovietici, finisce per sottoscrivere, il 26 agosto, un accordo (il cosiddetto diktat di Mosca) in cui la priorità è data alla "lotta contro le forze antisocialiste". Comincia così il ritorno all'ordine: vengono evitate le sollevazioni popolari, anche se non mancano fatti tragici, come il rogo di Jan Palach, uno studente ventunenne che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco nella piazza Venceslao di Praga per protesta contro l'occupazione sovietica. Ma la "normalizzazione" è in marcia, grazie anche all'abile manovra chiamata la "tattica del salame", con cui viene disgregato il gruppo che faceva capo a Dubcek, prima allontanando Smrkovsky, poi dividendo Cernik da Dubcek e Dubcek da Svoboda.Dopo di che la strada è in discesa.



Dubcek viene sostituito da Husak come primo segretario del PCC nell'aprile del 1969, poi espulso dal Presidium (in settembre, dopo le manifestazioni antisovietiche suscitate dalla vittoria della squadra di hockey ceca contro quella sovietica), quindi obbligato a dimettersi dal Comitato centrale nel gennaio 1970 e infine, dopo pochi mesi come ambasciatore ad Ankara, espulso dal PCC il 26 giugno 1970 (tornerà visibile, come presidente del parlamento, dopo l’89, per morire nel ‘92 in un incidente automobilistico). Gli intellettuali e gli studenti sono ridotti al silenzio, la polizia riprende il suo occhiuto potere, la censura torna a dominare, viene largamente praticata la denigrazione e la calunnia verso i personaggi più noti (che cosa non si è scritto, in quegli anni, contro Prochaska, contro Havel - che dopo l'89 diventerà presidente della Repubblica contro Pelikan e tanti, tanti altri?). Insomma, la Cecoslovacchia torna all'ovile, e dovrà aspettare vent'anni per riassaporare - con la "rivoluzione di velluto" del novembre 1989 - la libertà.Ma questa è un'altra storia.


In conclusione si può dire, come ha scritto Renzo Foa, che "il tempo, di solito prodigo di risarcimenti morali, non è stato generoso con Dubcek e con i «comunisti riformatori», che hanno finito per essere due volte sconfitti: in quanto riformatori (da altri comunisti) e in quanto comunisti (dalla storia)". Ma il comunismo è quello che è: esso non è in alcun modo riformabile, e la vicenda della Primavera di Praga ne è un'ennesima, drammatica conferma.


Resta però il fatto che “la realtà del comunismo è profondamente radicata nei cuori”, e che “il cambiamento delle strutture, del regime, non è ancora il cambiamento del cuore e della mentalità: molti, ancora adesso, agiscono sotto l'influsso di questa mentalità, anche senza rendersene conto”: così, con amarezza, ha constatato il Card. Vlk, arcivescovo di Praga in un’intervista a «Avvenire» del 20 agosto 1998.


Paolo De Marchi

Rapporto UNFPA, conta solo la salute riproduttiva


Il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) ha recentemente pubblicato il suo Rapporto annuale 2007, concentrato principalmente sul lavoro dell’organizzazione nel campo della “salute sessuale e riproduttiva”. La natura radicale del documento è svelata dal numero di volte in cui ricorrono certi temi. In 36 pagine “salute riproduttiva” e “diritti riproduttivi” – usati come eufemismo per intendere aborto – sono citate 80 volte.


Le più diffuse cause di morte come malaria e tubercolosi non vengono menzionate affatto. L’acqua pulita, notoriamente uno dei più gravi problemi nei Paesi poveri, non trova alcuno spazio mentre una sola citazione è dedicata alle fognature, la cui mancanza è una delle principali cause di morte nei Paesi in via di sviluppo.


Il Rapporto annuale rivela che nel 2007 più della metà delle spese dell’UNFPA sono andate per programmi di salute riproduttiva, per un costo di 146,6 milioni di dollari. Anche esaminando regione per regione, la maggioranza dei fondi è stata spesa in iniziative per la salute riproduttiva. Sebbene l’UNFPA si rifiuti di dare conto dei dettagli dei propri programmi e nel rapporto annuale manchi una contabilità finanziaria dettagliata, vi troviamo però la presentazione di alcune iniziative dell’agenzia.


Tra queste lo sviluppo nel 2007 di “linee guida e protocolli per i servizi di salute riproduttiva” nell’ex repubblica sovietica della Georgia. Per capire concretamente le pratiche sul campo si deve però guardare altrove. I comunicati stampa dell’UNFPA ci informano così della presenza di "squadre mobili per la salute riproduttiva" in Georgia che distribuiscono contraccettivi, inclusi i kit per inserire la spirale (IUD, intra-uterine devices), che può avere anche effetti abortivi.


Il rapporto rivela anche le tecniche usate per promuovere i programmi dell’UNFPA tra i minorenni. Al proposito l’UNFPA ha collaborato con il governo libanese per creare lebteen.com, un sito che incoraggia gli adolescenti a usare la pillola del giorno dopo. Promossa come “contraccezione d’emergenza”, la pillola può in realtà agire da abortivo causando l’espulsione dell’uovo fertilizzato.


Tra le iniziative più significative presenti nel Rapporto troviamo il nuovo “piano strategico”, che guiderà l’agenzia fino al 2011. Uno dei principali obiettivi è l’accesso universale alla salute riproduttiva entro il 2015 da raggiungere attraverso la promozione dei “diritti riproduttivi” – termine definito sul sito dell’UNFPA come inclusivo del diritto alla privacy – comunemente intesi come sinonimo di aborto. Il piano si concentra anche sulla salute mentale come “aspwetto integrale della salute riproduttiva”. Negli Stati Uniti e altrove la “salute mentale” è stata usata come pretesto per espandere il diritto all’aborto oltre i casi dove è in gioco la salute fisica della madre.


Gli indicatori che l’UNFPA userà per misurare il successo del suo piano includerà l’aumento del numero dei paesi che elargiranno fondi pubblici per i servizi di salute riproduttiva e la prevalenza nell’uso dei contraccettivi.


Un altro obiettivo del piano strategico è l’esercizio dei “diritti riproduttivi” da parte di donne e adolescenti. Questo obiettivo include l’uso del sistema dei diritti umani per espandere i “diritti riproduttivi” e integrarli nelle politiche nazionali sul rispetto dei diritti umani. Il successo dell’iniziativa sarà misurato dal numero di paesi che inseriranno i “diritti riproduttivi” tra i diritti fondamentali riconosciuti dalla giurisprudenza e dall’aumento di leggi che incorporano questi diritti.


di Stephen Braunlich

Il Papa: solo l'ateismo rovina l'ambiente


“Fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di ‘soggiogarla’ non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni”. E’ questo il passaggio centrale dell’intervento con cui papa Benedetto XVI ha risposto a una domanda sull’ambiente nel corso della conversazione avuta con il clero di Bressanone il 6 agosto scorso.


E’ un intervento fondamentale perché il Papa chiarisce una serie di equivoci e ambiguità sulla questione ambientale di cui sono vittima anche ampi settori della Chiesa. Contrariamente a ciò che hanno scritto i maggiori giornali, Benedetto XVI non ha affatto affermato che “sull’ambiente la Chiesa deve fare di più”, a intendere un sostegno per i movimenti ambientalisti. Il Papa ha invece detto che la Chiesa deve rivitalizzare la sua dottrina della Creazione, che “negli ultimi decenni era quasi scomparsa in teologia”. E’ peraltro ciò di cui era convinto l’allora arcivescovo Ratzinger che proprio per questo nel 1981 decise di tenere nella sua diocesi di Monaco di Baviera una catechesi sulla Creazione (ripubblicata di recente dall’editore Lindau nel volume “In principio Dio creò il cielo e la terra”). E’ qui che la Chiesa deve fare di più, ovvero tornare ai fondamenti della fede cristiana, il che permette di “imparare a capire in tutta la sua falsità”

l’accusa al cristianesimo di essere responsabile della distruzione ambientale a causa del suo antropocentrismo.


Da decenni infatti l’ascesa del movimento ecologista va di pari passo con l’attacco alla dottrina della Chiesa che pone l’uomo al vertice della Creazione: per salvare il pianeta – si dice allora – bisogna porre l’uomo alla pari degli animali e dei vegetali perché tutti gli esseri viventi hanno pari dignità. La massima espressione di questa mentalità è stata la promulgazione nel 2000, in sede ONU, della Carta della Terra in cui i diritti universali dell’uomo lasciano il posto alla centralità di una più ampia “comunità di vita” (sulla Carta della Terra, consigliamo di leggere “Le Bugie degli Ambientalisti”, Piemme).


Il Papa invita i cattolici a capire bene la falsità e il pericolo di questa ideologia, e porta anche l’esempio del monachesimo: “Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla”.


Per il Papa dunque il vero problema per l’ambiente è causato dall’ateismo: “Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze (…); E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte…”.


La posizione non potrebbe essere più chiara. Speriamo allora che queste parole del Papa trovino la necessaria attenzione anche nelle alte sfere della Chiesa italiana: si stanno infatti moltiplicando iniziative di diocesi e organismi ecclesiali che sulle questioni ambientali seguono il solco tracciato da associazioni ecologiste – come WWF, Greenpeace, Legambiente – figlie proprio di quell’ideologia denunciata dal Papa. Il sacrosanto interesse all’ambiente non può risolversi nell’aggiungere un cappellino spirituale a un vestito fatto da altri, oltretutto in odio alla Chiesa. Né può essere confuso il catastrofismo ecologista con il dono della profezia.


di Riccardo Cascioli