venerdì 27 giugno 2008

Visto? Non sta in piedi un’Unione senza Dio"

Intervista a Marcello Pera

E’ la vendetta cristiana, la storica risposta dei credenti all’Europa senza Dio». Il no irlandese al trattato di Lisbona è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici», attacca il senatore «teocon» del Pdl, Marcello Pera. «Questa Ue è morta perché stata abbandonata dai popoli e ora solo Benedetto XVI può dare un’identità al vecchio continente - sostiene l’ex presidente del Senato e coautore del libro papale “Senza radici: Europa, relativismo, cristianesimo, islam” - Il cattolicissimo popolo d’Irlanda ha avvertito l’estraneità di un’Europa burocratica e astratta che nega duemila anni di cristianesimo»
Perché la cattolica Irlanda affossa l’Ue?
«Siamo di fronte al suicidio di una Costituzione troppo lontana dai popoli e dalle società europee. Sta crollando un’architettura barocca con espressioni bizantine indecifrabili per gli stessi parlamentari e ignote ai cittadini. E’ l’ineluttabile implosione di un mostro gigantesco e privo di significato che impone restrizioni, rispetto di patti, vincoli, parametri astrusi ma poi lascia soli i governi sulla sicurezza e l’integrazione. I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)».
Una rivolta cristiana ai “senza Dio” di Bruxelles e Strasburgo?
«La legislazione bioetica in paesi cattolici come l’Irlanda e l’Italia viene importata dall’Europa e sfugge al controllo democratico. Delle corti europee che decidono della nostra vita nessuno sa nulla, non hanno rapporto con la popolazione. Sono organismi di giustizia che legiferano in modo troppo autonomo sulla base di testi ignoti e le loro decisioni piombano sulle nostre teste. Ormai sono il cavallo di Troia per introdurre all’interno degli Stati la gran parte della legislazione bioetica. Dell’Europarlamento nessuno conosce la funzione. E’ eletto ma non è terreno di scontro politico, non è niente. l’intera Ue è una costruzione complicata, remota, ostile che incombe sulla gente scegliendo tutto sulla vita umana dal concepimento alla fine naturale. E poi non riesce a proteggermi dal vicino di casa».
E’ colpa della «cacciata» di Dio dalla Costituzione?
«Sì. Il giorno infausto in cui ha deciso programmaticamente di eliminare Dio, l’Europa si è condannata all’inesistenza, cioè ad essere priva di un popolo, di una storia, di un’identità europei. Senza Dio l’Europa non si unifica. Lo hanno ben capito gli irlandesi, tradizionalmente attenti alle leggi e gelosi della loro insularità. Oggi sprofonda un’Europa atea, nemica che esibisce il volto minaccioso di veti inconcepibili, impone medicine amare, pretende di azzerare i valori non negoziabili. Adesso l’ipocrisia è finita: l’Ue ha fallito. Anche in Italia serve il coraggio di dire “no,basta” e ricominciare da un’altra parte».
Da dove?
«Dai temi etici posti da Benedetto XVI, l’unico grande leader di statura e livello europei. Solo Papa Ratzinger può unificare l’Europa. In assenza di un’adeguata classe politica, Benedetto XVI è diventato il vero punto di riferimento dei popoli e l’autentico artefice dell’identità europea. in Irlanda e altrove la gente segue lui. Da Benedetto XVI i cittadini europei traggono identità, dai politici il nulla. Per questo seguono il Papa e affossano l’Ue. L'Unione ce l’ha con la Chiesa (e con coloro che su questioni come l’omofobia e il riconoscimento giuridico delle coppie di fatto ne condividono la posizione) perchè è la punta avanzata del laicismo europeo. E' sull'odio contro la Chiesa e l’apostasia del cristianesimo che oggi si basa l'Europa».

di Giacomo Galeazzi

La Stampa 14 giugno 2008

«La bandiera arcobaleno è New Age non va più esposta nelle chiese»


L’agenzia vaticana «Fides» spiega le origini del vessillo del movimento pacifista: «È legato alla teosofia e al relativismo. Tornate alla croce»...


di Andrea Tornielli


Perché preti e laici cattolici usano la bandiera arcobaleno come simbolo di pace invece della croce? Non sanno che quella bandiera è collegata alla teosofia e al New Age? È netto e documentato il giudizio contenuto in un articolo pubblicato da «Fides», l’agenzia della Congregazione vaticana per l’evangelizzazione dei popoli diretta da Luca De Mata, nei confronti del vessillo, simbolo del movimento pacifista, appeso anche nelle chiese e da qualche prete pure sull’altare.«Come mai uomini di Chiesa, laici o chierici che siano - si chiede “Fides” - hanno per tutti questi anni ostentato la bandiera arcobaleno e non la croce, come simbolo di pace? Sarebbe interessante interrogare uno per uno coloro che hanno affisso sugli altari, ingressi e campanili delle chiese lo stendardo arcobaleno». L’agenzia vaticana ipotizza qualche risposta in proposito, vale a dire «la lunga litania degli eventi in cui la Chiesa avrebbe brandito la croce come simbolo di sopraffazione», dalle Crociate alla caccia alle streghe ai roghi di eretici. «Fides» a questo proposito ricorda però che non è il simbolo della croce in quanto tale «ad aver bisogno di essere emendato», quanto piuttosto «gli atteggiamenti degli uomini che, guardando a tale segno, possono ritrovare motivo di conversione». Poi rilancia: «Questi uomini e donne di chiesa sanno qual è l’origine della bandiera della pace? Molti probabilmente no. Altri, pur sapendo, non se ne preoccupano più di tanto».Le origini della bandiera della pace vanno ricercate, spiega l’agenzia, «nelle teorie teosofiche nate alla fine dell’800. La teosofia (letteralmente “Conoscenza di Dio”) è quel sistema di pensiero che tende alla conoscenza intuitiva del divino». Da sempre presente nella cultura indiana, ha preso la sua moderna versione dalla Società Teosofica, «un movimento mistico, esoterico, spirituale e gnostico fondato nel 1875 da Helena Petrovna Blavatsky, più nota come Madame Blavatsky». Il pensiero della corrente rappresentata dalla bandiera arcobaleno si basa sullo «gnosticismo», sulla «reincarnazione e trasmigrazione dell’anima», sull’esistenza di «maestri segreti» e riconduce al New Age, mentalità che predica la libertà più assoluta e il relativismo, l’idea dell’«uomo divino», il rifiuto della nozione di peccato.«Fides» spiega che esistono diverse versioni di questa bandiera, una delle quali è riconosciuta ad Aldo Capitini, fondatore del Movimento nonviolento, «che nel 1961 la usò per aprire la prima marcia per la pace Perugia-Assisi», mentre un’altra «segnala che la sua origine risale al racconto biblico dell’Arca di Noè» e dunque sarebbe un simbolo cristiano a tutti gli effetti. In realtà - scrive l’agenzia dopo aver ricordato che è anche il simbolo dei movimenti di liberazione omosessuali - la bandiera rappresenta un’idea secondo la quale «per esempio è possibile mettere sullo stesso piano partiti politici o gruppi culturali che rivendicano, legittimamente, la difesa della dignità della donna, e gruppi, come è accaduto recentemente in Europa, che rivendicano la depenalizzazione dei reati di pedofilia. Si tratta ovviamente di aberrazioni possibili, solo all’interno di una mentalità relativistica come quella che caratterizza le nostre società occidentali».La bandiera, conclude «Fides», è un simbolo sincretistico, che propone l’unità New Age nella sintesi delle religioni. Introdurla nelle chiese e nelle celebrazioni è da considerarsi «un abuso».


Il Giornale n. 147 del 2008-06-21


Leggi il testo integrale dell'articolo dell'Agenzia Fides

giovedì 26 giugno 2008

Le dittature islamiche preparano l’assalto alle libertà occidentali


di
Mark Dubowitz

Benvenuti in un mondo dove le critiche all’islam militante potrebbero portarvi davanti a un tribunale, o forse peggio. A Vancouver, la storica rivista Maclean attende un verdetto per calunnia dal tribunale per i diritti umani perché ha pubblicato un capitolo tratto dal libro campione di vendite “America Alone”, scritto dal suo corrispondente Mark Steyn. I querelanti hanno fatto causa all’autore e all’editore con l’accusa di “islamofobia”.

La scorsa settimana, Ekmeleddin Ihsanoglu – segretario generale dell’Organizzazione della Conferenza Islamica (OIC) - in un incontro a Kuala Lumpur ha avvertito i 57 membri che “biasimare o meramente dissociarsi dagli atti di coloro che perpetrano l’islamofobia” non è più abbastanza. Ha raccomandato ai paesi occidentali l’importanza di limitare la libertà di espressione, e ha richiesto che i media cessino immediatamente di pubblicare “materiale odioso” come le vignette danesi. “È ora che azioni concrete estirpino il problema alla radice, prima che si aggravi ulteriormente”, ha concluso Ihsanoglu.

I paesi islamici hanno già conseguito una vittoria importante su questo fronte lo scorso marzo: hanno ottenuto che il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite emanasse un divieto universale contro la diffamazione pubblica della religione – ovvero dell’islam.

Questi sono solo alcuni esempi della campagna che sempre più si impegna ad utilizzare il potere giudiziario per mettere a tacere coloro che criticano l’islam militante. Nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite per la Revisione degli accordi di Durban, in programma a Ginevra dal 20 al 24 aprile 2009, l’OIC ed i suoi adepti avranno modo di promuovere ancora più radicalmente i loro progetti.

Torniamo tuttavia al primo incontro di Durban, la Conferenza Mondiale del 2001 contro il Razzismo, che si svolse solo pochi giorni prima dell’11 settembre. L’appuntamento scivolò rapidamente in un festival dell’odio verso gli ebrei, l’America e Israele. Disgustate dalla retorica vile e dalle immagini caricaturali del popolo ebraico presentate, degne di un novello Stürmer, le delegazioni degli Stati Uniti e Israele abbandonarono l’evento.

Le speranze che la conferenza Durban numero due il prossimo anno si riveli un evento più illuminato sono già state cancellate, visto che sono stati alcuni tra i peggiori criminali contro i diritti umani a deciderne il programma. In seguito alle richieste incessanti dell’OIC, la Libia si è assicurata la presidenza della commissione preparatoria, sia l’Iran che il Pakistan parteciperanno a tale commissione e l’Egitto, un altro membro dell’OIC, rappresenterà il gruppo dei 53 Stati africani durante i dibattiti.

Dunque, invece che purificarsi dai peccati commessi, quest’ultimo forum delle Nazioni Unite tenterà di minare le fondamenta delle società libere invocando lo spettro dell’islamofobia. L’OIC rappresenta in ogni caso il blocco di voti più saldo e potente: come le democrazie delle Nazioni Unite hanno ripetutamente avuto modo di realizzare, l’OIC – che con i suoi 57 membri controlla il gruppo delle 130 nazioni in via di sviluppo - può nella maggior parte dei casi promuovere i propri obiettivi senza grosse difficoltà.

Quello che molto probabilmente accadrà durante il nuovo incontro sarà che su tutti gli Stati dell’ONU verranno fatte pressioni per l’approvazione di leggi restrittive della libertà di parola e di azione nell’interesse della lotta all’”islamofobia”. Certamente la discriminazione e la diffamazione dei mussulmani, così come di ogni altro gruppo, è chiaramente da condannare. Ma l’”islamofobia”, come definita da Libia, Iran e dagli altri organizzatori di Durban numero due, include qualsiasi forma di critica all’islam, ai mussulmani e alle loro azioni. Se i capi di queste nazioni avranno la meglio, gli articoli che criticano l’islam radicale, che condannano i terroristi mussulmani o – ovviamente - la pubblicazione di vignette sul profeta Maometto, verranno presto considerati esempi criminali di razzismo.

Nel corso dei più recenti incontri preparatori in aprile e maggio, tutti i membri dell’OIC – dall’Iran all’Indonesia - hanno ribadito che l’islamofobia è una conseguenza della libertà di espressione. “Il fenomeno più preoccupante è la convalida intellettuale e ideologica dell’islamofobia”, ha affermato il rappresentante pachistano alle Nazioni Unite, Marghoob Saleem Butt, per conto dell’OIC. “Nonostante si manifesti attraverso la diffamazione della religione, si maschera altresì dietro la libertà di espressione e di opinione”. Dando voce alle richieste del blocco mussulmano e dei suoi molti leader autoritari, Butt ha richiesto che i colloqui di Durban “diano origine a standard normativi in grado di fornire garanzie adeguate” contro l’intolleranza verso i mussulmani, incoraggiata proprio dalle libertà di parola e di opinione.

I difensori dei diritti umani hanno espresso serie preoccupazioni per queste recenti minacce alle libertà civili, ma senza successo. Tra tutti, Juliette De Rivero – direttore del Human Rights Watch di Ginevra, ha lanciato un segnale d’allarme già lo scorso aprile. “Le preoccupazioni legittime per la relazione tra intolleranza razziale e religiosa e l’odio non dovrebbero costituire il pretesto per mettere in discussione libertà fondamentali come la libertà di parola”, ha dichiarato davanti agli organizzatori della conferenza di Ginevra.

Il pericolo fondamentale di Durban è che la conferenza inneschi il tentativo di cambiare le leggi internazionali e nazionali. Se l’OIC avrà successo, una definizione molto generica di “islamofobia” verrà inclusa nel documento finale di Durban. Dopodiché gli organi delle Nazioni Unite, tra i quali la Commissione per l’Abolizione della Discriminazione Razziale, presumibilmente chiederanno ai singoli paesi di applicare tali direttive. Altri organismi del sistema internazionale adotteranno e faranno riferimento alla definizione di “islamofobia”, finché le conseguenze non tarderanno a manifestarsi all’interno del sistema stesso.

Le linee guida di Durban II non si limiteranno infatti a deformare gli standard internazionali di quanto costituisce ”islamofobia”; l’OIC in realtà mira a riversare il proprio linguaggio negli ordinamenti nazionali di ogni singolo paese. Difatti, il primo punto nella bozza del programma degli obiettivi finali della conferenza si prefigge di fare in modo che i paesi “siano tenuti ad approvare legislazioni adeguate in linea con gli standard internazionali”. La stessa bozza identifica la libertà di espressione come “una sfida e un ostacolo sostanziale” nella lotta alle forme odierne di razzismo.

A questo punto, solo l’Unione Europea può fermare questo processo insidioso. Il Canada ha già annunciato che boicotterà la conferenza, e anche gli Stati Uniti hanno dichiarato che non parteciperanno a Durban numero due se si preannuncia un altro fallimento. Tuttavia solo la minaccia dell’assenza dell’Europa darebbe credibilità alle pressioni occidentali, negando ai partigiani dell’”islamofobia” l’imprimatur che tanto agognano. Il mese prossimo, la Francia inizierà la propria presidenza del Consiglio Europeo. Parigi sarà dunque chiamata a condurre la battaglia per le libertà dell’Occidente, e per una volta l’Iran, la Libia e gli altri Stati autoritari saranno sulla difensiva. Speriamo che il Presidente francese Nicolas Sarkozy sia consapevole della posta in gioco.

© Wall Street Journal

martedì 24 giugno 2008

ONU, l'aborto non è un Obiettivo del Millennio. Ma l'UNFPA ci riprova


Il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA), e altre agenzie e funzionari delle Nazioni Unite da alcuni mesi stanno annunciando l’introduzione del “nuovo obiettivo” di “accesso universale alla salute riproduttiva entro il 2015” tra gli Obiettivi di Sviluppo del Millennio (MDG) adottati solennemente otto anni fa.

Dato che i MDG sono stati sviluppati e approvati attraverso incontri tra capi di stato che hanno richiesto mesi di negoziati, l’inclusione di un nuovo obiettivo dovrebbe essere approvato con un esplicito accordo dell’Assemblea Generale dell'ONU. L’UNFPA sostiene che ci sia un nuovo obiettivo basandosi su un’unica frase nascosta nell’Annesso 2 che si trova a pagina 73 del Rapporto di 76 pagine del Segretario Generale (A/62/1), adottato dall’Assemblea Generale lo scorso anno.

I MDG sono stati negoziati nel 2000 da oltre 150 capi di stato, la maggiore assise del genere nella storia. L’accordo prevede otto ampi obiettivi, sostanzialmente non controversi, come lo sradicamento della povertà e della fame, il raggiungimento dell’istruzione primaria per tutti e la riduzione della mortalità infantile. Nessuno dei MDG fa alcuna menzione alla “salute riproduttiva” e neppure la Dichiarazione del Millennio che ne è il fondamento.

La ragione per cui l’UNFPA e altri gruppi cercano di adottare un nuovo MDG sulla “salute riproduttiva” è che il termine è usato per promuovere l’aborto, anche se l’Assemblea Gererale non ha mai avallato tale definizione.
Nel processo di revisione quinquennale dei MDG, tre anni fa, i sostenitori dell’aborto – incluse l’International Planned Parenthood Federation (IPPF) e l’UNFPA, hanno lanciato una campagna aggressiva per spingere i governi ad approvare un nuovo obiettivo sulla “salute riproduttiva”. Il loro tentativo fu respinto.

Nell’incontro del 2005 i leader delle nazioni si sono espressi contro l’introduzione di nuovi MDG e hanno invece pubblicato una dichiarazione politica che approva la “salute riproduttiva”, ma si tratta di un documento programmatico e non vincolante che non ha alcun valore giuridico. Dal fallimento del tentativo di introdurre un nuovo e distinto MDG sulla “salute riproduttiva”, i sostenitori dell’aborto hanno cercato di inserire “la salute riproduttiva” agli obiettivi già esistenti.

Gli Stati Uniti hanno ripetutamente insistito che un obiettivo sulla “salute riproduttiva” non è mai stato deciso dagli stati menbri. All’incontro del Consiglio direttivo del Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia (UNICEF) all’inizio di giugno, la delegazione USA ha sollevato il problema dell’ultimo rapporto UNICEF, che fa riferimento alla “salute riproduttiva” come obiettivo del millennio.

Il rappresentante statyuintense presso l’UNICEF, Bill Brisbane, ha affermato nell’occasione che mentre gli USA sono impegnati nel raggiungimento dei MDG come concordato nella Dichiarazione del Millennio e riaffermato nel Documento Finale del World Summit emesso del 2005, gli Stati Uniti “non appoggiano l’aggiunta di nuovi obiettivi, scopi o indicatori ai MDG internazionalmente riconosciuti”, e che “né noi né altri stati membri dell’ONU hanno mai dato mandato al Segretariato ONU per la creazione di un nuovo obiettivo MDG sulla salute riproduttiva”.


di Samantha Singson

Quando la FAO lanciava l'allarme fame nel 1974


Il 1 gennaio 1974 la Terra contava 3,9 miliardi di uomini.Una fase acuta di crisi alimentare era iniziata “improvvisamente” nel 1972, a causa di una diminuzione della produzione mondiale di cereali di 33 milioni di tonnellate. Rapidamente erano diminuiti gli stocks di riserva ed i prezzi erano quadruplicati nell’arco di 18 mesi. Sull’aumento dei prodotti agricoli influì anche l’aumento dei carburanti (conseguenza dello choc petrolifero del 1973) e dei fertilizzanti. Mentre la produzione diminuiva, contemporaneamente crebbe la richiesta di prodotti nel commercio mondiale, passando da 52 milioni di tonnellate di grano del 1971-72 ai 68 nel 1972-1973. Nel 1974 le riserve di grano non si erano ricostituite, nei maggiori paesi esportatori si erano ridotte bruscamente dai 49 milioni di tonnellate nel 1971-72 ai 29 nel 1972-73, per poi scendere ancora nel 1974. In India la percentuale di popolazione al di qua della soglia di povertà (22,5 rupie al mese in città e 15 nelle campagne) era passata - dal 1960-61 al 1967-68 - dal 52 al 70%.

Nel freddo 5 novembre 1974 si aprì a Roma la Conferenza Mondiale sull’Alimentazione (durò fino al giorno 16), la crisi era in una fase acuta. L’allora segretario generale della FAO, Addeke H.Boerma, sostenne che la causa di tutto è da attribuirsi alla meteorologia, la quale, come tutti sanno “è capricciosa” (di “climate change” e “global warming” si parlò circa due decenni dopo, all’epoca addirittura numerosi scienziati prevedevano un imminente forte raffreddamento). In tale occasione si ribadì che la fame nel mondo non deriva da una scarsità in assoluto della disponibilità di alimenti. Infatti la produzione complessiva di alimenti nel mondo era in via di principio sufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione esistente: all’epoca corrispondeva ad una disponibilità teorica media di 2700 calorie e di circa 70 grammi di proteine al giorno cadauno quando i fabbisogni minimi sono circa 2200 calorie e 35-40 grammi di proteine a persona. Tenendo conto anche degli altri alimenti esisteva una disponibilità teorica in media di quasi il 25% superiore alle necessità.

Secondo la FAO alcuni miglioramenti erano attuabili a breve: prezzi più equi per i fertilizzanti, migliori sistemi di lotta ai parassiti, istruzione agli agricoltori, riforme agrarie, nuove opere d’irrigazione, etc.Nella regione del Sahel (Senegal, Mauritania, Malì, Alto Volta, Niger e Ciad) milioni e milioni di persone avevano dovuto abbandonare le loro terre di fronte all’avanzare della desertificazione. La Mauritania era forse il paese più colpito dalla crisi: nel 1973 il 90% del bestiame era morto e la raccolta di cereali era ridotta a un terzo di quella del 1971, la quale era già diminuita al punto di causare morti e carestie. Un milione di capi di bestiame era scomparso, molti di questi morendo nei pochi pozzi disponibili, li avevano avvelenati con le loro carogne, dando luogo a epidemie e la seguente fuga di migliaia di persone. Ad esempio nella località di Rosso, dove la piovosità media è di 284 mm/anno (calcolata sul periodo 1935-1972), furono misurati 122 mm nel 1968, 126 nel 1971 ed appena 74 nel 1972.Nel Niger la siccità durava da sei anni ed i capi di bestiame morti erano due milioni, animali che in un paese privo di ferrovia costituivano oltre ad un aiuto per sostentamento anche uno dei pochi mezzi di trasporto.Nell’Alto Volta non c’era più cibo ed acqua, gruppi di affamati attaccarono i formicai giganteschi del paese per rubare “le riserve” delle formiche. Nel Ciad l’estensione del suo famoso lago, da cui dipende la vita di moltissime persone, si ridusse a causa della siccità a meno della metà dei suoi oltre 20.000 Kmq. In tutti e sei paesi del Sahel le colture sparirono a causa della siccità, le popolazioni si spostarono a sud verso il mare inseguite dal vento caldissimo proveniente dal deserto.Nel Senegal, nella regione di Diur Bel colpita all’epoca da una siccità estrema, precedentemente era stata scoperta una falda 4,5 miliardi di mc di acqua. Il progetto per la realizzazione di 350 pozzi era stato abbandonato perché il clima era apparso più clemente; purtroppo le persone dovettero tutte abbandonare l’area.

Successivamente la drammatica situazione del Sahel fu vissuta in altre zone: a Dahomey, nella Nigeria, nell’Etiopia, nel Kenia, nella Somalia, nella Tanzania. I morti si contarono a milioni, la siccità oltre all’Africa toccò la California, la Russia centrale, il Giappone. Le prospettive per i decenni successivi sembravano ancor più drammatiche: accanto alle dichiarazioni del tipo “la siccità durerà ancora trent’anni” fatta dal professor Hubert Lamb, c’era chi come lo scienziato inglese Derek Winstanley più tragicamente affermava che sarebbe durata fino al 2030 (un bel 100% di differenza).

Di chi era la colpa del peggioramento del clima in Africa? Dei venti, rispondevano i climatologi, “gli alisei secchi provenienti dal nord costituiscono una specie di sbarramento al monsone umido che viene dal sud. Questo sbarramento, chiamato ‘fronte intertropicale’, si è spostato verso l’equatore ed ha privato le zone del Sahel e di altre regioni del mondo delle importanti stagioni della pioggia. In questo modo il terreno è diventato sempre più secco”. Oltre alla siccità, rei della desertificazione in atto erano anche il pascolo di enormi greggi di capre da parte delle popolazioni nomadi, il dissodamento di ettari di bosco e savana per far largo alle coltivazioni, i paesi ricchi che avevano inviato appena un quarto degli aiuti promessi. “Tre o quattro paesi africani rischiano di scomparire dalla carta geografica” disse il segretario dell’ONU, Kurt Waldheim.All’epoca furono tentate anche iniziative, come quella in Rhodesia, per seminare sistematicamente le nuvole per aumentare le piogge, tanto che il guru verde Lester B. Brown disse che tali operazioni rafforzavano “la prospettiva che ben presto la guerra meteorologica” sarebbe uscita dal regno della fantascienza. All’epoca l’Etiopia era ultima nella classifica del reddito individuale e prima per l’analfabetismo (95%), la burocrazia corrotta del paese non era in grado neanche di utilizzare gli aiuti, in 20 anni furono usati solo 527 dei 1140 miliardi messi a disposizione dall’assistenza straniera.

La siccità durata per 10 anni consecutivi causò una carestia spaventosa e cominciò ad allentare la sua presa poco dopo il 1974; stime dei suoi effetti furono 350mila morti (anche a causa di una epidemia di colera).

Oggi la Terra conta circa 6,5 miliardi di persone, contro i 3,9 del 1974. Nonostante i tanti problemi e sfide da affrontare, Jean Ziegler,UN Special Rapporteur on the Right to Food, afferma riguardo alla quantità di cibo disponibile e tenendo conto che c'è il 67% di abitanti della Terra in più: «Allo stato attuale la produzione agricola mondiale potrebbe facilmente sfamare 12 miliardi di persone. Da un altro punto di vista, si potrebbe equivalentemente dire che ogni bambino che muore per denutrizione oggi è di fatto ucciso».


Forse il vero problema non sono gli andamenti climatici catastrofici e la fine delle risorse naturali, ma come condividerle assicurando a tutti la possibilità di produrre o poter comprare il “pane quotidiano” (come frutto del proprio lavoro; lavoro che garantisce dignità e libertà).


di Fabio Malaspina

Crisi del cibo? Chiediamo aiuto alla dea Cerere

“Il 20% dell’umanità consuma l’80% delle risorse mondiali”. Questo argomento, un tempo molto usato in ambienti no global per attribuire le cause della povertà all’ingordigia e all’egoismo dell’Occidente, sembrava ormai abbandonato per sempre per la buona ragione che non regge essendo che omette di dire l’essenziale: e cioè che quel ‘20% di umanità’ sotto accusa produce l’80% delle risorse mondiali, e poi eventualmente le consuma (essendo tra l’altro nel pieno diritto di farlo); e in realtà non le consuma mai tutte, ma ne risparmia quantità enormi destinandole, oltre che a realizzare ulteriori investimenti produttivi, ad assistere chi ne ha bisogno, vale a dire quell’80% dell’umanità che la retorica terzomondista dipinge come vittima di spoliazione.

In realtà la causa prima della povertà è la scarsa capacità produttiva delle economie di sussistenza ancora prevalenti nei paesi in via di sviluppo a cui va aggiunto il danno della pessima amministrazione delle risorse prodotte che corruzione e malgoverno, in tanti stati soprattutto in Africa e Asia, indirizzano al consumo vistoso pubblico e privato delle leadership al potere.

Eppure il missionario comboniano Alex Zanotelli ha appena ripreso l’argomento ritoccando le percentuali. Secondo lui ormai l’88% delle risorse sono consumate dall’11% dell’umanità. Zanotelli non è solo. Il 27 maggio, intervistato sul tema del carovita e della crisi alimentare dall’emittente radiofonica ‘Radio Vaticana’, Riccardo Moro, direttore della fondazione ‘Giustizia e solidarietà’ della Cei, ha detto: “Credo che sia soprattutto un problema di distribuzione, di cattiva distribuzione del prodotto sia tra nord e sud del mondo che a livello regionale e locale. Di sicuro abbiamo un prodotto che non è aumentato come è aumentata viceversa la domanda in ragione soprattutto della crescita demografica....” (MISNA, 28/5/2008).

La dichiarazione di Moro, che sembra non tener conto dell’immenso flusso di aiuti che costantemente raggiungono i poveri del pianeta e ne consentono la sopravvivenza, è vera in effetti, come si è detto, per quel che riguarda il livello locale. Valga come esempio quello della Nigeria dove un’enorme quantità di denaro, per decenni, invece di affluire nelle casse statali ha preso la strada dei conti privati dei leader che si sono avvicendati alla sua guida: in tutto dal 1960, anno dell’indipendenza, non meno di 350 miliardi di dollari. Per questo la Nigeria, pur essendo uno dei maggiori produttori di petrolio del mondo, è popolata da decine di milioni di poveri.

Secondo la FAO, inoltre, non è vero che la produzione mondiale di generi alimentari non è aumentata: al contrario. Per il 2008/2009 si prevedono in particolare raccolti di grano e di riso da record e consistenti incrementi nella produzione di raccolti oleaginosi, di zucchero, carne, pesce e patate. Tuttavia proprio la FAO ritiene che i prezzi degli alimenti continueranno a salire almeno per altri 10 anni anche se a un ritmo più lento: il mais, ad esempio, aumenterà del 15%, l’olio di semi del 33%. Lo sostiene un rapporto elaborato in collaborazione con l’Ocse, intitolato Agricultural outlook 2007-2016 e presentato a Parigi il 29 maggio, nel quale si legge inoltre che, per evitare una carestia di portata mondiale, entro il 2030 la produzione totale di cereali dovrà crescere del 50% e quella di carne addirittura dell’85%.

Se in certe affermazioni è evidente l’influenza delle ideologie terzomondiste ed ecologiste e se altre risentono di un approccio poco sistematico al problema, concentrandosi su un solo fattore come causa del ‘carovita’ (per Moro, evidentemente quello demografico, per altri i biocarburanti, per altri ancora fattori speculativi e via dicendo), lo studio della FAO fa sorgere un altro problema: quello che si equivochi dando per certo l’avvento dello scenario delineato e dimenticando che le proiezioni descrivono l’andamento futuro di un fenomeno, in questo caso il prezzo delle materie prime, posto che stato attuale e tendenze di tutti i fattori rilevanti rimangano invariati.

Invece l’unica certezza per quanto riguarda il futuro è che, di sicuro, si verificheranno cambiamenti e fatti imprevisti che modificheranno le proiezioni. Basti pensare a quelle relative agli andamenti demografici che negli scorsi anni sono state drasticamente rivedute a causa dell’imprevisto abbassamento del tasso di incremento demografico verificatosi.

È in questo clima che a Roma dal 3 al 6 giugno si svolgerà il vertice della FAO sulla sicurezza alimentare. C’è da sperare che porti concrete indicazioni operative che invece, a quanto pare, difficilmente potranno arrivare dal forum alternativo organizzato, sempre a Roma, dalle associazioni di contadini e pescatori del sud del mondo e intitolato ‘Terra Preta’: tra le anticipazioni vi è la notizia che i partecipanti al contro-vertice, a chiusura dei lavori, si recheranno al tempio di Cerere, alla Bocca della Verità, e, ciascuno con i propri riti, renderanno omaggio alla antica dea romana dei campi e dei cereali.

Inondazioni, la lezione del fiume Aniene


Nei giorni 21 e 22 Maggio molti quotidiani hanno dato spazio alla notizia dello straripamento dell’Aniene, causato dalle forti precipitazioni, e della successiva dichiarazione dello stato di calamità naturale. Tra le zone più duramente colpite dall’allagamento: Ponte Lucano, Ponte Mammolo, Corcolle, Albuccione, etc., dove la protezione civile ed i vigili del fuoco sono dovuti intervenire per mettere in salvo alcune famiglie.

Lo straripamento del Nilo per gli antichi egizi era un evento che portava ricchezza al proprio territorio tanto che spesso seguiva una cerimonia per ringraziare le divinità. In generale il fatto che un fiume esca dagli argini a causa delle forti precipitazioni non dovrebbe destare meraviglia, essendo qualcosa, prima o poi, di ineluttabile. Anzi, sapendo questo, per vivere in sicurezza e prosperare, l’uomo dovrebbe costruire gli argini dei fiumi in modo da “guidare” lo straripamento in zone disabitate e/o almeno non costruire nelle zone dove è probabile che il fiume esca dagli argini.

Ad esempio a Roma, nella zona Magliana nel 1942 era prevista l’inaugurazione di un aeroporto che non vide mai la luce anche a causa degli effetti sulla zona successivi ad una storica piena del Tevere.

L’Aniene a causa del suo carattere impetuoso e delle sue forti variazioni di portata, storicamente ha sempre straripato nella zona di Tivoli fino a circa il 1835. Ripercorriamo brevemente la storia delle piene più famose.

Nel 105 d.C. Plinio il Giovane (Epist.8,17,3-5) scriveva: ”L’Aniene, il più delizioso dei fiumi, quasi affascinato e trattenuto dalle ville che ne sottolineano il corso, irruppe, divelse e travolse la maggior parte dei boschi che ne ombreggiavano l’alveo. Screpolò i monti e, qua e là ostacolato dai crolli di massi abbattuti, affannandosi a rientrare nella propria sede abbatté le case e prese a scorrere sulle loro rovine sommerse… Tutto questo poté osservare chi, sulla parte più alta della città, restò al riparo della tempesta. Egli vide galleggiare masserizie ponderose di ricchi, attrezzi agricoli, buoi, aratri, bifolchi ed ogni specie di armenti. E fra essi tronchi d’alberi, travi e tetti di ville. E anche là dove non giunse l’impeto del fiume, si scatenò la rovina perché piogge violentissime si scagliarono giù dalle nubi e le strutture delle ville franarono ed i monumenti caddero infranti”.

Successive grandi inondazioni di cui si ha notizia delle devastazioni sono nel 1530, 1564, 1576, 1589, 1669, 1680, 1688, 1689, 1693, 1742, 1757, 1779, 1808, 1822.

Nel 1826 il letto del fiume venne sconvolto da una disastrosa piena che oltrepassò la chiusa preesistente, che risaliva almeno al 1489, e la fece crollare, trascinando con sé, nell’impeto, anche diversi quartieri abitativi lungo il fiume.

Settiminio Bischi scrisse dell’evento del 1826:

”Chi potrà senza dolore e pena rammentare l’alluvione accaduta ai giorni nostri, e li danni da essa cagionati? Le piogge abbondanti del 14 e 15 Novembre 1826 essendosi accresciute nella notte seguente produssero una straordinaria alluvione che interruppe la comunicazione con Roma al Ponte Lucano ed al Ponte Mammolo. Il fiume oltremodo ingrossato, malgrado lo sbocco aperto nell’emissario della Stipa, nell’acquedotto Estense, e negli altri quattro appartenenti agli Opifici inondò tutti gli Orti sulle ripe della Città, ed il Brecceto, alzandosi le acque di due metri sul ciglio della Caduta erano ricoperti gli scogli più elevati dalle acque, che in massa si sforzavano di entrare nella sottoposta grotta di Nettuno. Mancava un’ora al mezzo-giorno, quando si riconobbe, che l’acqua formava un vortice nel Brecceto poco prima della caduta, e alla dritta. Erano le acque penetrate in un pozzo di calce, ed avendo trapelato nella volta di abbandonato acquedotto, ben presto il vortice si cambiò in ampia voragine, per la quale cercò l’acqua un passo più basso di quello del muro di cinta. Appena ciò riuscì, il labro del muraglione, e tutti gli acquedotti restarono senza acqua. Non potendo tale sbocco essere sufficiente, né potendo lo scoglio resistere a forza così grande si ruppe, crollò, e cadde con esso una casa superiore. Il fiume in tal guisa si aprì un nuovo letto circa 8 metri più basso dell’antico livello. L’abbassamento del fiume lasciò senza sostegno la riva sinistra, sulla quale era stata praticata la strada di S. Lucia. Furono portate viale passonate a difesa, le terre della ripa, gli Orti, il muro della strada, la Chiesa di S. Lucia, e tutte le case di quella ripa… Né qui si fermò la ruina, precipitò anche la strada principale, che da S. Valerio conduce a Palazze colle case poste dall’altro lato, non ché gran porzione del Palazzo Boschi, restando la residuale, come altri molti fabbricati, crepolati, e mal sicuri sopra un’altezza di metri 33 con base non proporzionata ed in alcuni luoghi perpendicolarmente per metri 15.La rovina principiata un’ora dopo il mezzogiorno del 16 continuò ancora nel giorno 17: il fiume che rapidissimo portava degli alberi interi di quercia dalle superiori montagne asportava da Tivoli li travi delle diroccate case, li mobili, le botti e tutte le grascie, che nel primo momento non si potevano salvare.”

Forse non avendo problemi con valutazioni d’impatto ambientale e non credendo fosse possibile far piovere come si desiderava attraverso modificazioni dei comportamenti umani, all’epoca si cercò di risolvere il problema in maniera drastica e definitiva. Il Pontefice Gregorio XVI bandì una gara per risolvere la questione; fu scelta tra le ventitrè proposte la più innovativa, il progetto di Clemente Folchi. Questo prevedeva un traforo del Monte Cavillo per piegare il corso del fiume ed indirizzarlo verso una zona disabitata. I lavori iniziarono il 6 luglio 1832 ed in soli due anni furono realizzati due cunicoli di 280 m che allontanavano per sempre la paura delle inondazioni da Tivoli. Oltre a rendere la città più sicura si era anche realizzata artificialmente Villa Gregoriana, ancor oggi un posto dove numerosi turisti vanno per guardare un paesaggio di rara bellezza solo apparentemente naturale.
Sotto Tivoli il percorso dell’Aniene non ha subito sensibili modifiche, così oggi quando a causa del suo carattere impetuoso e delle sue forti variazioni di portata in alcune zone straripa si legge sui quotidiani che la colpa delle imprevedibili calamità naturali sono la tropicalizzazione del clima, le stagioni cambiate a causa dell’incremento dell’effetto serra, il cambiamento climatico. Forse il vero problema è che l’uomo spesso non impara e non ricorda il passato, in certi casi più che pensare ai cambiamenti climatici futuri dovremmo tornare ad una maggiore conoscenza del territorio, ad una conoscenza dei fenomeni naturali locali dei quali occorre tenerne conto principalmente in fase di progettazione urbanistica.

di Fabio Malaspina (Fisico)

UNIONE EUROPEA: il no dell’Irlanda al Trattato di Lisbona


Il no dell’Irlanda al nuovo progetto di Unione Europea (53,4% contro il 46,6%) ha un eloquente significato, che va considerato in tutti i suoi aspetti.

C’è chi afferma che 4 milioni di irlandesi, meno dell’1 per cento della popolazione del continente, non possono bloccare la volontà di 497 milioni di cittadini europei. La verità è però un’altra, sottolineata dal Presidente ceco Vaclav Haus: i politici europei hanno permesso ai cittadini di esprimere la loro opinione in un solo Paese in Europa, e in questo Paese sono stati bruscamente contraddetti.

I pianificatori dell’Europa unita, consapevoli del fatto che qualsiasi trattato europeo sarebbe stato rigettato dagli elettori, hanno deciso di evitare di sottoporglielo. Anziché interpellare direttamente l’opinione pubblica, ventisei Stati membri dell’Unione hanno scelto di approvare il Trattato in Parlamento (diciotto Paesi lo hanno già ratificato).

L’Irlanda è l’unico Paese ad avere indetto un referendum, perché a ciò era obbligata da una sua recente legge. Ma il referendum irlandese ha confermato lo iato esistente tra “Europa reale” e “Europa legale”. Ogni qual volta i cittadini europei sono chiamati alle urne per esprimere il loro giudizio sulle istituzioni comunitarie, le rifiutano con decisione. È accaduto con i referendum del maggio-giugno 2005 in Francia e in Olanda, e si è ripetuto il 13 giugno in Irlanda. «Gli elettori europei – ha scritto Fausto Carioti su “Libero” (14 giugno 2008) – si dividono in due categorie: quelli che hanno bocciato i trattati europei e quelli ai quali è stata negata la possibilità di bocciarli».I risultati di queste consultazioni elettorali rivelano l’esistenza di una forte divaricazione tra il sentimento popolare e il “potere senza volto” dei “piani alti” di Bruxelles. Lucio Caracciolo ricorda il perfido motto di uno dei “padri” dell’Europa, Jean Monnet: «l’essenziale non è sapere dove andare, ma andarci» (Il trionfo dell’euronoia, “La Repubblica”, 14 giugno 2008). Le strade per raggiungere la meta sono tortuose, ma gli “eurocrati” non rinunciano al progetto di dissoluzione degli Stati nazionali avviato dal Trattato di Maastricht del 1992.
La bocciatura irlandese non è però un semplice “incidente di percorso” ma una brutale battuta d’arresto. Il Presidente della Commissione Barroso ha ammesso che non esiste un “piano B” per aggirare il no dell’Irlanda, anche perché il Trattato di Lisbona rappresentava già un “piano B”, rispetto alla Costituzione Europea bocciata dai referendum del maggio 2005.

Francia e Germania si ripropongono ora come le “locomotive” di un’Europa a più velocità, ma il cammino appare impervio. La data del 1 gennaio 2009, prevista per l’entrata in vigore del Trattato, è irrimediabilmente saltata e non sarà facile approntare nuove soluzioni, almeno a breve termine, Quanto è accaduto offre un’importante conferma del fatto che niente è irreversibile nella storia, se esiste una ferma volontà di resistenza.
In Irlanda, come già era accaduto in Francia e in Olanda, l’intero establishment si è schierato per l’approvazione del Trattato: i due principali partiti, quello al Governo, e l’opposizione di Sinistra; i sindacati e gli industriali; tutti gli organi di informazione. Eppure una attiva minoranza, guidata da vivaci associazioni come la Irish Society for Christian Civilisation, è riuscita a dar voce all’opinione pubblica, inceppando il meccanismo, montato dai tecno-burocrati e mutando così il corso della storia europea.

Va aggiunto che la principale ragione per cui il nuovo progetto europeo è stato rifiutato è dovuta ai suoi contenuti palesi, e non ai suoi aspetti criptici e farraginosi. Lo ha visto bene il senatore Marcello Pera che ha sottolineato come il no irlandese al Trattato è «l’inevitabile reazione alla cancellazione delle radici cristiane dalla Costituzione e alle eurodirettive, prive di legittimazione democratica, che stravolgono le legislazioni nazionali sui temi bioetici (…). I cattolici irlandesi si sono ribellati ad un’Europa che nella Costituzione mette al bando Dio per orientare verso l’anarchia del relativismo le legislazione nazionali sui temi eticamente sensibili (adozioni ai gay, eutanasia, aborto, “provetta selvaggia”)» (“La Stampa, 14 giugno 2008).

Nel Trattato di Lisbona assume forza giuridica obbligatoria la Carta dei Diritti fondamentali, varata nel dicembre 2000 a Nizza, che costituisce il cuore della nuova costruzione europea. Nella Carta di Nizza, condannata da Giovanni Paolo II pochi giorni dopo la sua promulgazione, non c’è solo il rinnegamento formale delle radici cristiane dell’Europa.

Nell’articolo 21, per la prima volta in un documento giuridico internazionale, l’“orientamento sessuale” è riconosciuto come fondamento di non-discriminazione, mentre due altri articoli del nuovo Trattato sul funzionamento dell’UE, il 10 e il 19, ribadiscono lo stesso principio. Questi articoli traducono in termini giuridici la cosiddetta teoria del gender, che distingue il sesso fisico-biologico dalla tendenza sessuale o “identità di genere”. La sessualità, in questo modo, diventa non un dato di natura, ma una scelta “culturale”, puramente soggettiva. L’art. 9 della Carta dei Diritti di Nizza dissocia inoltre il concetto di famiglia da quello di matrimonio tra un uomo e una donna, aprendo la porta alle unioni omosessuali e alle adozioni di bambini da parte delle coppie “gay”.

La Carta conferisce inoltre ai cittadini la possibilità di ricorrere contro le legislazioni nazionali, con il rischio di creare un meccanismo per cui, attraverso i ricorsi dei cittadini e le sentenze della Corte di Giustizia europea a cui essi adiscono, si arrivi a determinare una giurisprudenza comunitaria che esautori le legislazioni nazionali. I singoli possono tutelare i diritti loro garantiti dal Trattato appellandosi alla Corte di Giustizia, le cui sentenze si applicano direttamente all’interno degli Stati membri. La sovranità degli Stati sarebbe progressivamente liquidata a colpi di sentenze dei Tribunali europei.

Se il Trattato di Maastricht, con l’introduzione dell’euro, ha voluto dare all’Europa una costituzione economica, con il Trattato di Lisbona, stiamo passando non ad una costituzione politica, ma ad una costituzione giuridica, fondata sui nuovi diritti postmoderni, diametralmente opposti ai “principi non negoziabili” a cui tanto spesso si è richiamato Benedetto XVI. (R.d.M.)