martedì 27 maggio 2008

A chi piace la fame?

di Riccardo Cascioli

C’è davvero un’emergenza fame su scala globale e senza precedenti? Ed è davvero iniziata – come titolava un giornale qualche settimana fa – la “guerra mondiale per il cibo”? Il tam tam mediatico cominciato alla fine di marzo ha indubbiamente fatto intravedere scenari da incubo, con possibili – se non probabili - decine di milioni di morti per fame, e con governi e agenzie umanitarie mobilitate per evitare il peggio. Sia ben chiaro: guai a sottovalutare la povertà e le condizioni di estrema precarietà in cui vivono ancora tante persone nel mondo; eppure tanto allarmismo fa nascere qualche sospetto, soprattutto quando si leggono la diagnosi e la cura proposta da tante fonti autorevoli. Ad esempio, il sito della britannica BBC, nello speciale appositamente dedicato al problema, afferma che la prima causa della crisi sta nell’aumento della popolazione e nel fatto che il genere umano sta consumando più risorse di quelle effettivamente disponibili. Se questo è il male si può facilmente capire quale sarà la cura: così il rischio che parte dei fondi straordinari raccolti per fronteggiare l’emergenza sia dirottato in programmi per il controllo delle nascite è tutt’altro che remoto.
Per questo è importante capire bene i termini del problema: ciò cui stiamo assistendo in questi mesi è una crisi alimentare dovuta al rincaro dei prezzi dei prodotti agricoli – soprattutto cereali - che si sta registrando negli ultimi due anni. Ovviamente ciò colpisce soprattutto le popolazioni povere che vivono nei grandi centri urbani del Terzo mondo. Ma tale rincaro dei prezzi non ha niente a che vedere con la mancanza di cibo, che invece a livello globale c’è ed è più che sufficiente a sfamare l’attuale popolazione mondiale e anche quella prevista per i prossimi decenni. Insomma questa crisi non ha niente a che vedere con le grandi carestie del XIX secolo o con la gravissima penuria di cibo seguita alla fine della Seconda Guerra mondiale, e neanche con le emergenze fame che negli anni ’60-’70 del XX secolo hanno colpito il Biafra, il Sahel e più in generale l’Africa sub-sahariana.Basterebbe andare a consultare le statistiche della FAO per verificare che dal 1970 ad oggi la disponibilità di cibo pro-capite è decisamente aumentata in tutto il mondo – anche nei Paesi dell’Africa sub-sahariana - malgrado la popolazione sia quasi raddoppiata, dai poco più di 3 miliardi e mezzo del 1970 agli attuali 6,3 miliardi. Un dato che trova conferma nell’ultimo Rapporto dell’ONU sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio (2007). Qui leggiamo: “A livello mondiale, il numero di persone nei Paesi in via di sviluppo che vivono con meno di un dollaro al giorno è sceso da un miliardo e 250 milioni nel 1990 a 980 milioni nel 2004”; e questo – ripetiamo – malgrado nel frattempo la popolazione sia aumentata di circa un miliardo di persone. Infatti, in termini percentuali il progresso è ancora più evidente: “Nello stesso periodo la proporzione di persone che vivono in estrema povertà è scesa da circa il 33% al 19”. Tanto che lo stesso rapporto afferma che anche “i più poveri stanno diventando un po’ meno poveri in quasi tutte le regioni”.In tutto questo periodo il prezzo dei prodotti agricoli è rimasto abbastanza stabile, con una leggera tendenza al rialzo valutabile intorno al 3%. Poi, improvvisamente la svolta: dal marzo 2007 al marzo 2008 i prezzi hanno registrato un’impennata: il riso è salito del 74%, il grano del 130%, la soia dell’87% . E’ ovvio che non può essere stato un aumento di circa 70 milioni di persone (più o meno è questo l’incremento annuo della popolazione mondiale) ad aver provocato tale sconquasso. Sarebbe perciò una sciagura se l’attuale crisi alimentare diventasse il pretesto per rilanciare vecchie politiche anti-nataliste che hanno già provocato abbastanza disastri.Se si vuole evitare che si cancellino in poco tempo i progressi nella lotta alla fame fatti in tanti decenni, si deve perciò intervenire sui veri fattori all’origine della crisi, che sono diversi: le politiche agricole dei Paesi sviluppati, che si basano su un sistema di sussidi e dazi che penalizza i Paesi poveri ma anche la produzione in generale (il caso delle “quote” europee è emblematico); l’aumento del costo dei trasporti; la produttività agricola, che nei Paesi del Terzo mondo è ancora estremamente bassa (e da questo punto di vista un aiuto potrebbe venire dagli Organismi Geneticamente Modificati); le spinte speculative sul mercato dei prodotti agricoli; la riconversione delle colture per produrre i biocarburanti.Quest’ultimo fattore tra tutti merita un approfondimento perché è qui che si scontrano opposte visioni dello sviluppo.Anche all’ONU ora si alzano sempre più forti le voci che chiedono una moratoria sui biocarburanti, ovvero sull’uso di mais e barbabietole da zucchero per produrre combustibile per auto. In pratica una quantità sempre crescente di terreni agricoli vengono destinati a coltivazioni che non hanno scopo alimentare. La distorsione del mercato che ne consegue è evidente. Già nei Paesi industrializzati si sta spendendo dai 13 ai 15 miliardi di dollari l’anno per incentivare tali coltivazioni, al punto che per ogni litro di etanolo che si produce l’Unione Europea versa un dollaro di sussidio pubblico. Il confronto con il costo dei combustibili fossili (che invece sono fonte di introiti per lo Stato) è impietoso e oltretutto per dei risultati più che modesti: la riduzione delle emissioni di gas serra dei biocarburanti (obiettivo della scelta politica) è nell’ordine del 13-18 per cento rispetto ai combustibili fossili.Già così – dando per vero che dalle nostre emissioni di gas serra dipende il futuro del clima - si può tranquillamente definire una follia la scelta dell’Unione Europea e dei Paesi sviluppati di puntare sui biocarburanti. Ma il fatto è che non è neanche vero l’assunto che sta alla base di queste scelte politiche. Le emissioni di gas serra sono diventate un totem della nostra società, ma non c’è alcuna evidenza scientifica del legame tra attività umane e cambiamenti climatici, e anzi sono in costante crescita gli scienziati che si oppongono esplicitamente a questa teoria. In ogni caso, scegliere di intervenire su un fattore naturale (riduzione di gas serra) anche a scapito dello sviluppo di intere popolazioni, mette in rilievo la tipica concezione ecologista, che nel migliore dei casi considera l’uomo una variabile naturale fra le tante e nel peggiore lo vede come un pericoloso nemico della natura che va fermato in tutti i modi.Questo approccio, però, oltre a provocare povertà crescente fra la popolazione umana (come sta accadendo) peggiora anche lo stato della natura.


Bloccare la proliferazione di biocarburanti sarebbe dunque soltanto un primo passo per riaffermare la concezione che pone lo sviluppo integrale dell’uomo come obiettivo vero di ogni politica economica e anche di ogni politica ambientale.

mercoledì 21 maggio 2008

Da Martin a Martini Lutero.

di ANTONIO SOCCI

Nel suo nuovo libro, l’ex arcivescovo di Milano ammette l’influenza protestante sul cattolicesimo. Anni fa schierò l’Inquisizione contro chi poneva il problema...

Da Martin Lutero a Martini Lutero? La battuta sarebbe già pronta, se non fosse che nel caviale del tramonto dell'ex arcivescovo di Milano c'è davvero poco da ridere. La tristezza e la malinconia del cardinale lasciano sbigottiti, interdetti. Forse per ritrovare il bello sguardo cristiano di Péguy e di santa Teresina bisogna guardare altrove, a tanti semplici cristiani senza porpora che ci sorprendono ogni giorno con la loro letizia. Dicevo che il cardinale fa l'elogio di Lutero, almeno stando alle anticipazioni che La Repubblica e Il Foglio fanno del suo ultimo libro-intervista, "Colloqui notturni a Gerusalemme", uscito in Germania per le edizioni Herder. La Repubblica c'informa che il prelato «elogia Lutero, esorta la Chiesa al coraggio di riformarsi, a non allontanarsi dal Concilio». Secondo Il Foglio, Martini definisce Lutero, che nella storia della Chiesa è stato una delle più tragiche calamità, come «il più grande riformatore». Poi aggiunge che a Lutero «l'amore per le Sacre Scritture ispirò buone idee» (testuale!) e pur ritenendo «problematico» il fatto che Lutero abbia «tratto da riforme e ideali necessari un sistema proprio», tuttavia Martini afferma che la Chiesa contemporanea «se ne è lasciata ispirare per dar corso al processo di rinnovamento del Concilio Vaticano II, dischiudendo per la prima volta ai cattolici il tesoro della Bibbia su basi più larghe». Francamente non mi pare che duemila anni di esegesi cattolica e di studi biblici avessero bisogno di Lutero che ha dissolto le Sacre Scritture, non le ha certo "scoperte". Tanto è vero che proprio dal mondo protestante è arrivata quell'ondata demolitoria che ha fatto letteralmente a pezzi i Vangeli (o almeno ci ha provato). Questa sì è una peste che è entrata dentro la Chiesa, ma appunto come un'epidemia mortale (lo denunciò Paolo VI con parole accoratissime!). Quello che sorprende, nelle parole di Martini, non è tanto o solo l'elogio di Lutero, ma l'esplicita affermazione che la Chiesa del Concilio si sarebbe "ispirata" all'eretico e scismatico Lutero. Mi soffermo su questo -come si suol dire - per fatto personale. Il cardinal Martini - benché noto come progressista, dialogante e tollerante - è il vescovo, l'unico che io sappia dagli anni del Concilio, che ha sottoposto all'Inquisizione (chiamato oggi Tribunale ecclesiastico di Milano) alcune persone, oltretutto laiche, per un'opinione, una semplice opinione oltretutto non di dottrina, ma di natura storica e culturale (dove la disciplina ecclesiastica non vale).

GIORNALISTI INQUISITI

Accadde nel 1988 e io fui uno dei tre giornalisti del settimanale cattolico "Il Sabato" ad essere convocato in Curia e interrogato dal rappresentante del Tribunale ecclesiastico, monsignor Coccoplamerio. Quale fu il nostro "crimine" ? Un'analisi storica. In una lunga inchiesta sulla crisi della Chiesa, constatammo - con una documentata analisi (elogiata fra gli altri da Augusto Del Noce) - la «corrosione protestante del cattolicesimo politico, ancor più esplicita fra i cattolici intellettuali». Un gruppetto di intellettuali cattoprogressisti presentò un esposto all'arcivescovo di Milano perché, con tale analisi, a loro dire, avremmo leso la "buona fama" di Giuseppe Lazzati, che era uno dei tanti intellettuali menzionati e che mai ci eravamo sognati di attaccare sul piano personale. Il cardinale avrebbe potuto archiviare l'esposto, trattandosi di una normale e libera discussione storico-culturale. Invece attivò il procedimento finché "Il Sabato", essendo un settimanale cattolico legato a Comunione e liberazione, non dovette chinare la testa e fare una specie di abiura per "disciplina ecclesiastica". Un piccolo "caso Galileo" che esplose sui media grazie al Giornale di Montanelli che sparò tutto in prima pagina con questo titolo: "A Milano è tornata l'Inquisizione. Al rogo il settimanale Il Sabato?". Seguirono giorni di polemiche, editoriali e commenti. Il cardinale Martini fu molto seccato perché la cosa era diventata pubblica associando il suo nome all'Inquisizione delle idee. Il caso fu emblematico perché rese evidente che nella Chiesa postconciliare i teologi potevano mettere in discussione tutti i dogmi della fede, dalla Trinità a Maria, passando per i Vangeli, ma guai a mettere in discussione lorsignori "intellettuali cattolici" o più in generale l'establishment cattolico. L'Immacolata Concezione e la Resurrezione di Cristo si potevano discutere, ma Scoppola, Dossetti, Lazzati, Alberigo (con i Prodi e i De Mita che ne erano la proiezione politica) e tanti altri campioni del mondo cattolico, quelli no. Oggi - dopo aver subito quel procedimento di Martini per aver constatato la "protestan tizzazione" del cattolicesimo leggiamo che secondo lo stesso cardinal Martini la Chiesa conciliare «si è lasciata ispirare» da Lutero. Così oggi è lui che dichiara proprio ciò che fu imputato a noi. Certo, per lui questa influenza protestante sul cattolicesimo pare sia cosa buona e giusta. Per altri (me compreso) è una vera sciagura. Mi sembra che anche Paolo VI vedesse nefaste influenze esterne che dissolvevano la vera fede. Lo si intuiva quando denunciò l'invasione di un pensiero «non cattolico» dentro il cattoliceismo, quando intervenne per stoppare le influenze protestanti (durante la redazione della Dei Verbum o sul dogma della Resurrezione di Cristo) e anche quando denunciò il «fumo di Satana» entrato nel tempio di Dio. D'altra parte a condannare questa "protestantizzazione" della Chiesa, curiosamente, fu lo stesso Oscar Cullmann, uno dei più famosi teologi protestanti, spesso citato in ambito cattolico. Ecco le sue testuali parole: «Se mi è permesso, come protestante, di fare questa constatazione, direi che da allora (il Concilio Vaticano II) certi ambienti cattolici, ben lungi dal lasciarsi ispirare dalla necessità di osservare i limiti dell'adattamento che non vanno superati, non si accontentano di cambiare le forme esteriori, ma prendono le stesse norme del pensiero e dell'azione cristiana, non dal Vangelo, ma dal mondo moderno. Più o meno inconsciamente, seguono così i protestanti, non in ciò che hanno di migliore, la fede dei Riformatori, ma nel cattivo esempio che loro offre un certo protestantesimo, detto moderno. Il grande colpevole non è il mondo secolarizzato, ma il falso comportamento dei cristiani riguardo a questo mondo, l'eliminazione dello "scanda lo" della fede. Si ha "vergogna del Vangelo" (Rom. 1,16)».

LA FEDE AUTENTICA

Parole simili e ancora più drammatiche sono state pronunciate, nella sua ultima intervista, da don Luigi Giussani: «La Chiesa si è vergognata di Cristo». E qua il problema riguarda tutti gli uomini di Chiesa. Martiniani e antimartiniani. I quali, per esempio, non intervengono contro le vere e proprie eresie che vengono insegnate nei seminari o nelle facoltà teologiche, ma invece intervengono (e tanto) su tutti i problemi della vita pubblica compresa la legge elettorale: i martiniani magari tuonano sui rom, gli altri sulla bioetica. Tutti hanno i loro "valori non negoziabili" (di tipo sociale gli uni, di tipo morale gli altri), ma forse si dimentica che per la Chiesa - fin dalle origini apostoliche - l'unico "valore" assolutamente non negoziabile è Gesù Cristo e la vera fede cattolica. Che pochissimi oggi difendono. Eppure per un cristiano solo quella vale, tutto il resto è "spazzatura". San Paolo, proprio parlando della Legge (i "valori non negoziabili"), scriveva: «tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura al fine di guadagnare Cristo» (Fil. 3,8). Forse è vero, il problema non è «il mondo secolarizzato», ma un cristianesimo che annacqua o corrompe la vera fede. Perché così la vita quotidiana di tutti è disperata. E non si incontra nessuna speranza. www.antoniosocci.it

Puffiamo

di Michela Proietti

“Schtroumpf” in fiammingo, “Smurfs” in inglese, “Barrufets” in catalano: in 50 anni di vita i Puffi sono stati tradotti in 25 lingue diverse, arabo compreso. Inventori di un linguaggio nuovo (“puffiamo?”), hanno trasformato l’amanita muscaria in un rifugio sicuro e il loro colore cianotico nell’inimitabile “blu puffo”.Disegnati nel 1958 dal fumettista belga Pierre Culliford, detto Peyo, sono diventati icona pop dopo la serie animata prodotta da Hanna & Barbera, studiati persino dagli antropologi. Creature sataniche, reincarnazioni dei saggi della Nuova Atlantide di Bacon, specchio di un kolchoz comunista, con l’inno dell’Urss camuffato dal tipico canticchiare “ la la lala lala la lalalala”. Umberto Eco nel 1979 scriveva per “Alfabeta” il saggio Schtroumpf und Drang, dove definiva le storie dei Puffi “deliziose, piene di humour, quasi educative”. Nel 2005 lo studioso di scintoismo Antonio Soro pubblicava il libro “I Puffi, la “vera” conoscenza e la massoneria”, sostenendo la teoria della comunità massonica. “È stato un fenomeno pensato per bambini che ha immediatamente catturato l’interesse degli adulti”, dice il sociologo Massimo Introvigne, che del libro di Soro ha firmato la prefazione. “Su quella comunità coesa si sono interrogati studiosi alle prese con la frammentazione della società moderna. Ma la teoria massonica è divertissment intellettuale, poiché i Puffi sono nati da una scuola di fumettisti belgi cattolici”.Valore estetico e rimandi con le degenerazioni della società contemporanea: i due elementi hanno decretato il successo mondiale del personaggio di Peyo. “Lo stile è quello della ligne claire: tratto limpido e netto, con uno sfondo molto curato. Nell’epoca dei manga giapponesi creati al computer, i Puffi introducevano un senso estetico che anche i bambini sapevano riconoscere”, dice Introvigne. Il villaggio dove tutto scorre tranquillo, eccezione fatta per le incursioni dello stregone Gargamella; le mansioni affidate e tramandate senza lotte di potere; la comunità governata da un vecchio saggio; il rispetto per le minoranze, rappresentate da Puffetta. “Tutti questi elementi hanno avuto grande presa sociale, soprattutto nel momento di anomia determinata dal passaggio dalla società tradizionale a quella individuale. Dopo il 1968 si è passati ad una forma di società a coriandoli, con individui consapevoli dei propri diritti ma incapaci di sviluppare un senso di comunità. I Puffi hanno rappresentato un passato mitologico, un modello di civiltà parrocchiale di cui si aveva grande nostalgia, ma che era impossibile ricreare. Oggi i Simpson hanno lo stesso valore di denuncia sociale, ma funzionano al contrario: il villaggio è quello disfunzionale contemporaneo, con tutte le sue schizofrenie”. Mentre la famiglia americana di Matt Groening soccombe alla politica e alla corruzione, i Puffi trionfano sempre. “Vincono perché fanno squadra, mentre Gargamella impersona l’individuo assoluto contemporaneo, che vicino ha solo un gatto infido”.

Europa, come è pericoloso essere concepiti

di Guglielmo Piombini

Il consumo di contraccettivi a livello industriale e l’aborto di massa danno la misura di quanto la società moderna si sia scristianizzata e allontanata dagli insegnamenti biblici. Nel libro della Genesi la prima cosa che Dio dice all’uomo e alla donna, dopo averli creati, è di avere figli: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra». La procreazione e la fertilità umana sono così centrali nella narrazione biblica, da formare le basi del patto di Dio con Israele: «La mia alleanza è con te e sarai padre di una moltitudine di popoli, e ti renderò fecondo, molto fecondo», dice Dio ad Abramo. Il Salmo 126 annuncia: «dono del Signore sono i figli, è sua grazia il frutto del grembo». In generale l’Antico Testamento vede la mancanza di figli come la peggiore delle disgrazie e condanna duramente il sesso non procreativo, come nell’episodio di Onan.

Anche Gesù, nel Nuovo Testamento, dà prova di un atteggiamento assai raro nel mondo antico, elogiando lo spirito meraviglioso dei bambini: «Gli presentavano dei bambini perché li accarezzasse, ma i discepoli li sgridavano. Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: “Lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite, perché a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità vi dico: Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso”. E prendendoli fra le braccia e imponendo loro le mani li benediceva».

Mentre la Bibbia non fa che celebrare la discendenza numerosa, la mentalità prevalente nell’attuale Occidente secolarizzato vede nei figli, più che una benedizione, un peso insopportabile da evitare con ogni mezzo. Questa visione avversa alla procreazione ha trovato una compiuta espressione nel libro della scrittrice francese Corinne Maier, No Kid. Quaranta ragioni per non avere figli (p. 148, € 13,50), appena pubblicato dalla casa editrice Bompiani sull’onda del successo di critica ricevuto all’estero, dove è stato adottato come manifesto dal child-free, il movimento di liberazione dai figli.

Gli argomenti contro i bambini della Maier, che oltretutto è madre “degenere” di due figli, rappresentano in realtà un perfetto distillato di quella “cultura della morte” infarcita di edonismo, materialismo e mathusianesimo che, nelle parole di Benedetto XVI, sta conducendo la civiltà europea al “congedo dalla storia”. La popolarità del libro della Maier spiega infatti, meglio di ogni indagine economica o sociologica, le ragioni culturali che stanno alla base della grave decadenza demografica della civiltà europea.
Agli inizi del Novecento l’Europa costituiva oltre il 20 per cento della popolazione mondiale, ma alla metà del XXI secolo si ridurrà a un misero 7 per cento. Le proiezioni demografiche sull’Europa dei prossimi decenni prospettano un futuro drammatico, nel quale pochissimi giovani europei in età produttiva e riproduttiva dovranno mantenere un numero esorbitante di anziani, e contemporaneamente vedersela con masse crescenti e bellicose di immigrati musulmani.

Anche coloro che non vedono la denatalità come un problema morale dovrebbero considerarla un’emergenza sociale, dato che non esiste problema che i paesi europei si trovino oggi ad affrontare (dalla bancarotta dello stato sociale alla stagnazione economica, dall’invecchiamento della società all’invasione immigratoria) che non abbia come causa l’immensa mancanza di giovani e di bambini. Tuttavia, invece di correre ai ripari, i responsabili culturali della catastrofe che si va materializzando davanti a noi continuano imperterriti a predicare e a diffondere l’ideologia antinatalista. Dato che l’Italia detiene quasi il record mondiale di denatalità, la pubblicazione di un libro in cui si esortano le donne italiane a non fare figli appare quindi, in primo luogo, come un’operazione di cattivo gusto.

In realtà vi sono molte analogie tra la mentalità antinatalista di oggi e quella dell’epoca precristiana. Per un bambino essere concepito nella Grecia o nella Roma classica era estremamente pericoloso, proprio come lo è oggi nell’Occidente secolarizzato e neopagano, dove l’aborto è diventato la prima causa di morte. In tutte le società antiche, infatti, l’abbandono dei neonati, l’infanticidio, l’aborto e perfino i sacrifici rituali di bambini (ad esempio tra i cananei e i cartaginesi) erano largamente diffusi. A causa di queste pratiche, le famiglie numerose erano molto rare nella società greco-romana. Intorno al 140 a.C. lo storico greco Polibio si lamentava che «nel nostro tempo tutta la Grecia ha conosciuto una scarsità di bambini e una generale decadenza della popolazione… perché la passione per gli spettacoli, per il denaro e per i piaceri di una vita oziosa ha pervertito i nostri uomini». Spesso le prime vittime della cultura antinatalista erano le bambine. Nell’antica Grecia era un fatto raro, persino tra le famiglie più ricche, allevare più di una figlia. Un’iscrizione del secondo secolo d.C trovata a Delfi rivela che, su un campione di seicento famiglie, solo una su cento aveva due figlie.

L’orientamento fortemente favorevole alla famiglia e ai figli degli ebrei e dei cristiani, invece, li distingueva nettamente dalle altre popolazioni antiche. Non a caso lo storico romano Tacito deprecava gli ebrei per la loro singolare opposizione all’infanticidio: «Tra di loro è un crimine uccidere un neonato, ed è strana la passione con cui propagano la loro razza».

I cristiani non solo avevano famiglie più numerose, ma spesso adottavano i bambini abbandonati. Anche grazie a questo vantaggio demografico a poco a poco i cristiani soppiantarono i pagani nell’impero romano. L’avvento di Gesù Cristo segnò dunque “il trionfo degli innocenti”, cioè dei bambini da sempre disprezzati, maltrattati, respinti o eliminati. Al contrario, il consenso di cui godono oggi le idee di Corinne Maier danno il segno dell’imbarbarimento in cui è precipitato l’Occidente moderno che ha voltato le spalle alla propria tradizione morale e religiosa.

giovedì 15 maggio 2008

Crisi alimentare, qualcuno ci guadagna

di Ettore Gotti Tedeschi

La Fao — l'organismo delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura — ha spiegato l'attuale «emergenza fame» citando cause strutturali dovute alle errate politiche di sviluppo adottate dai Paesi ricchi. Ma quali soluzioni possono essere proposte dopo anni di errori?

Molti economisti affermano che la globalizzazione ha avuto effetti positivi in alcuni Paesi che hanno saputo aprire con prudenza i propri mercati attraendo gli investimenti, tenendo fuori la speculazione finanziaria ed esercitando una politica molto rigida di controllo delle nascite, mentre ha avuto effetti negativi su Paesi — soprattutto in Africa — dove la crescita della popolazione è stata superiore alla crescita economica e dove quindi non conviene investire.

Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso alcuni organismiinternazionali avevano proposto analisi e avanzato previsioni catastrofiche sul problema della crescita demografica incontrollata e della fame nel mondo. Anche allora la fame dei Paesi poveri creò allarme, ma la soluzione proposta dal pensiero dominante fu neomalthusiana: bisognava cioè frenare la crescita della popolazione.

Si ignorarono invece le proposte fatte da prestigiosi esperti ed economisti — come Colin Clark, l'ideatore del concetto di prodotto interno lordo — secondo i quali la produzione mondiale di cibo poteva soddisfare non 6, ma ben 36 miliardi di abitanti. E ciò attraverso l'uso razionale — con sistemi intensivi e ridotti, anziché estensivi o collettivistici — delle colture e grazie alla sconfinata capacità produttiva del mercato. Già allora era chiarissimo che il problema della fame non era economico o ecologico, bensìpolitico, e legato al timore della crescita demografica dei Paesi piùpoveri, la cui popolazione doveva essere limitata nel numero piuttosto che sostenuta e sfamata non in modo assistenzialistico ma con cambiamenti strutturali a favore dello sviluppo interno.

Dopo trent'anni il problema si è addirittura accentuato. Secondo alcuni l'aumento dei prezzi dei cereali sarebbe dovuto alla crescita di domanda nei Paesi emergenti più popolosi, alla produzione dei biocarburanti, alle variazioni climatiche, ai sussidi economici garantiti alla produzione nei Paesi ricchi. La crisi sarebbe cioè dovuta alla dinamica di domanda e offerta del mercato influenzato dai Governi occidentali e dal loro miope egoismo.

In realtà le cose non stanno esattamente così. Il prezzo dei beni alimentari — le cosiddette commodity verdi — si direbbe piuttosto influenzato da fenomeni speculativi avviati da investitori internazionali che, abbandonati i prodotti finanziari senza più margine di profitto, hanno concentrato il loro interesse sulle commodity, cioè su petrolio e alimentari.

Secondo alcuni operatori specializzati, quasi il 70 per cento delletransazioni che hanno fatto crescere i prezzi del cibo sono finanziarie. Si è cioè «finanziarizzato» il bene agricolo creando un'altra bolla speculativa che potrebbe esplodere fra alcuni mesi, come già è avvenuto per il settore immobiliare. I prezzi dei prodotti agricoli nel mondo sono quindi decisi nelle Borse. Solo per una parte più marginale — anche se non trascurabile — la loro crescita è dovuta alla maggiore richiesta, ai biocarburanti e agli interventi pubblici.

Sarebbe però delittuoso permettere che le turbative speculative minaccino la sicurezza alimentare. Per evitare che ciò avvenga bisognerebbe regolamentare subito l'uso degli strumenti finanziari sulle commodity verdi. Sarebbe poi necessario disciplinare le politiche dei dazi sui prodotti alimentari provenienti dai Paesi in via di sviluppo, sostenendovi sistemi agricoli piccoli e intensivi. Sarebbe inoltre utile sostenere le produzioni agricole che utilizzano le biotecnologie vegetali, con un minore uso di acqua, concimi chimici e pesticidi.

Si garantirebbe così produttività a basso costo, favorendo la capacità di esportazione dei Paesi più poveri e soddisfacendo il loro bisogno interno.

Famiglia, il grande tradimento dell'ONU

di Riccardo Cascioli

“La più ampia protezione e assistenza possibile alla famiglia” per rafforzare il tessuto sociale. E’ con questa motivazione che l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha deciso con la risoluzione 47/237 del 20 settembre 1993 di istituire una annuale Giornata Internazionale della Famiglia da celebrarsi il 15 maggio a partire dal 1994.

La Giornata partiva così nell’Anno Internazionale della Famiglia – cui si riferiva la citata risoluzione - come parte delle iniziative dell’Onu per mettere al centro delle politiche sociali di tutti i Paesi quell’istituto che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani pone come “cellula fondamentale della società”. Non a caso nella stessa risoluzione si fa più volte riferimento ai diritti umani e alla Carta delle Nazioni Unite di cui si sarebbe celebrato di lì a poco lo storico 50esimo anniversario. Da allora sono passati 15 anni, quindici giornate internazionali della famiglia ognuna con un tema originale (quest’anno l’Onu si concentra sulla figura dei padri), poi un’altra grande celebrazione nel 2004, decimo anniversario dell’Anno Internazionale della Famiglia.

Eppure, malgrado la diffusa consapevolezza degli Stati membri sull’importanza di politiche a sostegno della famiglia, la Giornata Internazionale passa sempre sostanzialmente sotto silenzio, anche alle Nazioni Unite. “La spiegazione fondamentale sta nel fatto che i burocrati che gestiscono l’Onu e decidono in materia sono generalmente ostili alla concezione tradizionale della famiglia”, afferma Austine Ruse, presidente del Catholic Family and Human Rights Institute (C-Fam), una Organizzazione Non Governativa (Ong) pro-family che opera all’interno del sistema delle Nazioni Unite: “L’ala radicale che domina le strutture dell’Onu – prosegue Ruse -, con i propri sostenitori nelle Ong e nei governi nazionali, vede la famiglia come una forma di soffocante patriarcato che impedisce la libertà. La famiglia è il nemico. Lo dimostra il fatto che proprio mentre si celebrava l’Anno della Famiglia è stato chiuso all’Onu l’ufficio che doveva occuparsi proprio del sostegno alla famiglia”.

Le due “anime” dell’Onu sono emerse fin dall’origine. Non a caso proprio nell’Anno Internazionale della Famiglia, nel 1994, alla Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo (Icpd) svoltasi al Cairo, per dieci giorni si è assistito a una battaglia furiosa scatenata dalle lobby che volevano sostituire nel testo finale la parola “famiglia” con “famiglie”. In questo modo si voleva introdurre in un documento internazionale l’equiparazione alla famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna ogni forma di legame: unioni di fatto, coppie omosessuali, rapporti poliamorosi o poligamici. Alla fine venne fuori una espressione di compromesso, “La famiglia nelle sue varie forme”, dove veniva salvata l’unicità della famiglia naturale pur riconoscendo l’esistenza di non meglio specificate peculiarità legate alla cultura e alle tradizioni locali.

Tale formula è stata poi riconfermata in tutti i documenti ufficiali dell’Onu, ma la battaglia non è finita lì e ciò che non è stato possibile affermare in linea di principio si cerca di realizzarlo di fatto. “Praticamente tutto ciò che fa l’Onu in materia di politica sociale – dice ancora Austin Ruse – costituisce una minaccia potenziale per la famiglia. Basti pensare alla forte pressione – talvolta coercitiva – per indurre i Paesi a ridurre i tassi di fertilità. E’ un attacco al cuore della vita della famiglia, che è il baluardo contro perniciose influenze esterne. Come può un burocrate che risiede nella First Avenue di New York sapere quanti figli debba avere una famiglia che vive nel Botswana?”.

Peraltro si cerca di rendere comune e accettabile il termine famiglie in modo subdolo, ovvero usando sempre più spesso l’espressione “famiglie” in documenti informali o di presentazione delle iniziative. Ad esempio il tema scelto per la Giornata del prossimo 15 maggio è “Padri e famiglie: responsabilità e sfide”. Ma l’esempio più clamoroso lo si trova nel sito ufficiale delle Nazioni Unite dedicato alla Giornata: sebbene tutte le risoluzioni dell’Assemblea Generale facciano esplicito riferimento alla Giornata e all’Anno Internazionale della Famiglia, il sito è dedicato alla Giornata Internazionale delle Famiglie.

Non sembri una questione di poco conto: all’Onu è normale che si combatta aspramente su ogni parola o concetto, perché i documenti internazionali sono spesso usati per “rovesciare” le legislazioni nazionali, e se anche nei testi ufficiali si affermassero le “famiglie” sarebbe la fine per la “famiglia”.

martedì 13 maggio 2008

Un secolo contro Dio

Ernesto GALLI DELLA LOGGIA
tratto da: Corriere della Sera, 14.5.2000


Ancora una volta nel corso di questo pontificato l'involucro del nuovo per antonomasia, la televisione, è stato chiamato a dare eco subitanea, smisurata e universale, alle profondità di quanto è di più antico. In onda da Fatima, sui teleschermi del mondo, infatti, ha ieri preso forma e vita, c'è stata restituita nelle parole del cardinale Sodano e in un gesto muto del Papa, la dimensione per noi quasi perduta della profezia, cioè di uno dei nuclei più misteriosi e arcaici di ogni prospettiva religiosa.La profezia svolge per l'uomo di fede il compito che l'utopia si è riservata nell'ambito del mondo laico, ma con ben altra forza emotiva. E' l'evocazione di una verità "altra", un disvelamento più o meno indiretto di ciò che è stato, sarà o potrebbe essere, è una spiegazione del mondo e un invito a cambiarlo, come è anche l'utopia. Ma con una differenza essenziale: mentre questa è opera di dotti, al profezia invece si affida per lo più alla voce flebile ma alta e straziante degli ultimi, degli innocenti, dei reietti.C'è qualcos'altro che vale a definire, pur in una forte assonanza, una sostanziale diversità tra le due, ed è che mentre l'utopia colta dei laici inevitabilmente è sempre l'annuncio del bene, vuole esserlo e in ciò pone il suo senso e il suo valore, la profezia invece comprende anche l'annuncio del Male. E' la profezia del Regno ma insieme anche la profezia dell'Anticristo. E la rappresentazione - quanto più vera dunque e drammaticamente umana - dell'agone in cui è iscritta la nostra esistenza.Quello che ieri c'è stato svelato come il terzo segreto di Fatima è riassumibile precisamente nella lotta tra la Profezia religiosa e l'Utopia dei colti che ha avuto come teatro la storia del Novecento. Come del resto già in parte si sapeva, tutte le rivelazioni dei tre pastorelli portoghesi che nel 1917 dissero di avere incontrato "la Signora", riguardano infatti le vicende di questo secolo, e la "lotta dei sistemi atei" contro il popolo cristiano e i suoi pastori.Chi vorrà negare, oggi, che quella lotta ci sia effettivamente stata? E che a condurla con crudeltà smisurata sia stata innanzi tutto l'utopia comunista? Non bastassero le migliaia e migliaia di morti disseminate da Varsavia ad Hanoi, ne è testimonianza del resto la stessa persona di Giovanni Paolo II, vittima, 19 anni fa, di un attentato quasi certamente organizzato da uno di quei regimi.Ma non è solo il comunismo, a me pare, che viene oggi chiamato a rispondere. In realtà, in ogni progetto di ateismo militante, in ogni utopia pan-umanistica, si è annidata una potenzialità persecutoria e alla fine inevitabilmente omicida. Fino a prova contraria, a concepire un Messico senza Dio, e a dare una caccia spietata ai sacerdoti cattolici e ai contadini cristeros, non sono stati certo i comunisti, bensì dei borghesi dall'immacolato pedigree liberal-massonico.Così come atei militanti, addirittura adoratori pagani della divinità del sangue, sono stati anche i nazisti. Non per un cieco riflesso di "politicamente corretto", ma solo per debito di verità a noi piace pensare che "l'interminabile Via Crucis", di cui ieri ha detto il cardinal Sodano, sia toccata nell'Europa del Novecento agli uomini e alle donne di molte fedi nel Dio unico, a cominciare dalla più antica di esse, quella nel Dio di Abramo.Nei Paesi dell'Europa cristiana, dopo duemila anni di cristianesimo, il secolo alle nostre spalle ha assistito al più spaventoso, ampio e multiforme attacco ai fondamenti morali del monoteismo che sono anche i nostri. E questo il vero e proprio buco nero entro il quale la nostra coscienza storica è obbligata dalla profezia di Fatima a fissare oggi lo sguardo.

Hezbollah ha un nuovo (consapevole?) alleato: Barack Obama

di Barry Rubin

Mentre il Segretario di Stato americano dedica tutto il suo tempo all’infruttuoso dialogo tra israeliani e palestinesi, e gli Stati Uniti impazziscono per un candidato presidenziale la cui strategia in politica estera è quella di trattare con i dittatori, è in atto una nuova crisi che rende più potenti gli islamisti radicali e mina gli interessi dell’Occidente e dei suoi alleati.

La situazione di stallo in Libano si è infine sbloccata con la presa di Beirut da parte di Hezbollah e la disastrosa sconfitta del governo Siniora. Hezbollah in Libano sta utilizzando una strategia simile rispetto a quella adottata da Hamas a Gaza, anche se su scala ridotta, mentre il mondo resta a guardare. L’Iran e la Siria sostengono i loro amici con le armi; l’Occidente risponde con vuote parole. Chi può biasimare Hezbollah, Damasco e Tehran perché ridono alle nostre spalle? Perché i sunniti, i drusi e i cristiani del Libano dovrebbero rischiare la propria vita senza l’appoggio dell’Occidente? Ogni volta che un israeliano parla a vanvera di una Siria che vuole fare la pace con Israele; ogni volta che un americano chiede a Damasco di rompere l'alleanza con Tehran; ogni volta che un europeo predica l’appeasement, sta in realtà indebolendo il rapporto di fiducia con i libanesi.

Al momento, Hezbollah e i suoi finanziatori non cercano di conquistare il Libano; vogliono piuttosto ottenere il pieno controllo del governo attraverso la violenza e l’intimidazione. Incapaci di vincere attraverso mezzi propri, sperano di avere successo costringendo l’altra parte alla resa. Esigono potere di veto sulle decisioni dell’esecutivo per essere certi che quest’ultimo non faccia nulla che possa causar loro dispiacere: nessun legame forte con l’Occidente, nessuna possibilità di fermare la guerra contro Israele, nessun disarmo delle milizie di Hezbollah o tentativo di controllare il suo potere dispotico nel paese, e sicuramente nessuna commissione investigativa che sveli la partecipazione della Siria alle azioni terroristiche locali.

Ora Hezbollah ha un nuovo alleato: il Senatore Barack Obama, il quale però non comprende pienamente il danno che sta causando. Il suo discorso sul Libano del 10 maggio sembra apparire deciso a condannare “il potere di Hezbollah che vuole prendere Beirut”. “Il tentativo di compromettere il governo libanese democraticamente eletto deve cessare subito”, ha proseguito Obama, “e tutti coloro che hanno legami con Hezbollah devono dimettersi immediatamente”. Il Senatore dichiara di appoggiare il governo ufficiale del Libano, sostiene che si debba “rafforzare l’esercito libanese” e “insistere nel disarmo di Hezbollah”. Ma come? “Lavorando attraverso le istituzioni internazionali ed il settore privato per ricostruire il Libano, e rimetterne in piedi l’economia”. Secondo la concezione del mondo di Obama è quindi tutta una questione di sviluppo; ciò che tuttavia non riesce a comprendere è che sono le bombe a portare affari. Il Primo Ministro Rafiq Hariri stava seguendo esattamente questa strategia economica, ma la Siria lo ha fatto saltare in aria. L’unico modo per garantire la pace sociale è di conseguenza l'appeasement nei confronti di Hezbollah, Siria e Iran, poiché sono le loro interferenze violente a bloccare la prosperità.

Il discorso di Obama proseguiva così: “Dobbiamo appoggiare la risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che rafforza la sovranità del Libano, in particolar modo la Risoluzione 1701 che vieta il rifornimento di armi a Hezbollah, violata palesemente da Iran e Siria”. Grandioso. Ma la 1701 è già fallita, non credete? Come si fa allora a mobilitare la passiva “comunità internazionale”? Minacciando l’Iran, la Siria ed Hezbollah con rappresaglie credibili e durissime? Non c’è nessuna proposta a riguardo. Per quanto concerne invece l’esercito in Libano, il suo comandante è il candidato presidenziale siriano, i suoi soldati sono prevalentemente a favore di Hezbollah e l’equipaggiamento in dotazione fornito dagli americani è rimasto inutilizzato mentre Hezbollah prendeva possesso di larghe porzioni di territorio.

Ora tuttavia veniamo alla parte peggiore, che tutti in Libano comprendono ma pochi in America ammettono. Obama scrive: “E' ora di impegnarsi in uno sforzo diplomatico per costruire un nuovo consenso in Libano che possa condurre a riforme elettorali valide, che ponga fine al sistema di corruzione e nepotismo nel paese, e contribuisca a sviluppare un’economia che distribuisca equamente servizi, opportunità e lavoro”. Questo è esattamente il programma di Hezbollah: un nuovo consenso che ottenga il 51% del potere per sé e per i suoi alleati filosiriani. Ciò di cui il Libano ha bisogno non è il consenso (che sarebbe equivalente ad una cooperazione tra Fatah e Hamas, o ad un Iraq alleato con Iran e Siria), ma la vittoria in un conflitto. Invece Obama - non so quanto consapevolmente - sta sostenendo un Libano dominato da Siria, Iran e dHezbollah. Tutto questo getta gli arabi moderati nella disperazione. Il progetto è coerente: quando Obama afferma che la Siria e l’Iran dovranno essere attivamente coinvolti nel futuro dell’Iraq, il segnale che manda ad ogni regime del Golfo Persico è quello che scenderà a patti con l’Iran. Ogni volta che le sue posizioni convincono Hamas della sua morbidezza, ogni volta che Iran e Siria realizzano che basterà solo aspettare pazientemente ancora qualche mese perché la pressione su di loro si alleggerisca, la posizione statunitense in Medio Oriente viene sistematicamente indebolita.

Paradossalmente, tutto questo non rende Barack Obama il candidato preferito dagli arabi in generale, ma solo dai radicali. Gli egiziani, i giordani, gli arabi del Golfo sono preoccupati così come è preoccupata la maggioranza della popolazione in Libano e Iraq. La questione non riguarda soltanto Israele; riguarda tutti i non estremisti della regione. Se i dittatori e i terroristi se la ridono, significa che tutti gli altri stanno piangendo. I regimi di Siria e Iran sanno che non devono avere timore di nulla, per quanto ora camminino nella valle di lacrime delle sanzioni: ci sono infatti fin troppe persone disposte a consolarli. Con la Libia a capo della Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, le forze UNIFIL terrorizzate e ridotte alla passività da Hezbollah, l’Occidente tremante che rinnega la libertà di stampa per non offendere qualche musulmano, perché i cattivi dovrebbero preoccuparsi?

Ma l’Occidente non deve recitare la parte dello sciocco. Ora è il momento di agire in Libano per contenere la Siria e l’Iran, rafforzando il potere del governo libanese e di tutti quegli arabi e quegli iracheni che non vogliono vivere sotto un califfato islamico. La battaglia non si è ancora conclusa; e questo significa che abbiamo tutte le ragioni per proseguire con le ostilità - e non solo a parole. Continuando a discutere, scendendo a compromessi ed avallando improbabili progetti economici alla fine la guerra sarà persa. A tutti gli occidentali ai quali non piace Israele, dico almeno di cercare di aiutare coloro per i quali provano simpatia. Sosteniamo il governo libanese e tutte quelle forze che - apertamente o in maniera indiretta - combattono le forze radicali in Libano.

Traduzione di Alia K. Nardini

Barry Rubin è direttore del Global Research in International Affairs (GLORIA) ed editore del Middle East Review of International Affairs (MERIA). I suoi libri più recenti sono “The Truth About Syria” (Palgrave-Macmillan) e “The Long War for Freedom: The Arab Struggle for Democracy in the Middle East” (Wiley).

lunedì 12 maggio 2008

Decalogo per un ambiente a misura d’uomo

1 L’AMBIENTE È LA CASA DELL’UOMO
L’uomo non abita sulla Terra come un passante in un albergo, bensì abita la Terra come suo proprietario e inquilino. È dunque titolare del diritto e della responsabilità di farne il proprio ambiente ideale.

2 L’UOMO È AL CENTRO DELLA NATURA
La storia e le scienze dimostrano in maniera incontrovertibile che la specie umana è sostanzialmente diversa rispetto a qualsiasi altra presente sul pianeta. La sua eccelsa perfezione ne fa il centro e il vertice della natura.

3 L’UOMO È RESPONSABILE DELLA NATURA
Immerso nell’ambiente come un elemento fra gli altri, ma consapevole di essere l’unico vivente capace di modificare e di migliorare il proprio contesto, l’uomo è tenuto a impegnarsi affinché la natura raggiunga, mantenga e migliori gli equilibri più benefici. Il rispetto per lo straordinario valore anche del più infimo essere vivente deve associarsi alla lungimiranza con cui si stabilisce e si conserva la corretta gerarchia fra tutti i valori naturali.

4 L’UOMO MODIFICA L’AMBIENTE E NE INCREMENTA LA BELLEZZA“
Ambiente” non è casuale compresenza di elementi e tantomeno cieca evoluzione delle specie. Esempi innumerevoli dimostrano che la bellezza della natura coincide con l’arte dell’uomo che se n’è fatto ordinatore. Il paesaggio è componente tanto naturale quanto culturale del contesto ambientale.

5 L’AMBIENTE È UNA RISORSA
In un mondo degno dell’uomo, l’ambiente non è un dato esteriore, un mero elemento di partenza. È una risorsa, cioè un patrimonio che deve moltiplicarsi e fruttare al meglio, affinché l’umanità e ogni singolo essere umano ne traggano il vantaggio più concreto.

6 LA TECNOLOGIA RAPPRESENTA UNA RISORSA PER L’AMBIENTE
La scienza aiuta l’uomo a conoscere il mondo e le sue leggi. La tecnica è versante applicativo di questa conoscenza, che dalla comprensione dei segreti naturali trae spunto per esaltarne le qualità a beneficio di tutti. Se e finché questo rapporto fra l’uomo e la natura si mantiene equilibrato e corretto (a misura d’uomo), l’ambiente non potrà che trarre vantaggio dal contributo della tecnologia.

7 L’ECOLOGIA È LA SCIENZA CHE STUDIA IL GIUSTO RAPPORTO TRA L’UOMO E LA NATURA, NON IL SUO PERVERSO DISSIDIO
Il rapporto conveniente fra uomo e natura è affidato all’“ecologia”, scienza tesa a evitare che interessi particolari di qualsiasi tipo trasformino la natura in strumento usato contro l’uomo, a suo danno.

8 LO STATO NON BASTA A PROGRAMMARE L’EQUILIBRIO ECOLOGICO
È necessaria una prevenzione attenta per evitare l’alterazione degli equilibri naturali. Ciò si ottiene tramite l’esercizio legislativo e quello politico, che vegliano sul bene comune. Ma sebbene essenziale, questa dimensione non è l’unica né quella prioritaria, specie nella gestione delle emergenze, pena il prevalere di uno statalismo catastrofista.

9 IL PRINCIPIO DI SUSSIDIARIETÀ VA APPLICATO ANCHE ALLE POLITICHE AMBIENTALI
L’ambiente, infatti, è anzitutto l’ambiente di ogni uomo. La politica ambientale più corretta è dunque quella che tende a preservare l’iniziativa e la responsabilità dei singoli e delle società intermedie, in modo che le intenzioni e gli interessi di tutti risultino da un’effettiva mediazione a partire dai contesti concreti, non da pianificazioni teoriche e generaliste.

10 NULLA È ECOLOGICAMENTE COMPATIBILE SE NON È ECONOMICAMENTE SOSTENIBILE
L’impegnativo dibattito su fonti e risorse per l’oggi e per il domani – da quelle energetiche a quellealimentari – deve basarsi su una congrua e attendibile politica economica. Ciò implica che progetti e interventi si sottopongano a un severo conteggio dei costi e dei benefici, abbandonando sia gli assistenzialismi a fondo perduto sia le utopie “pulite” ma non redditizie e inutilmente costose.

POLITICA ESTERA: la Costituzione del Kosovo ratificata in sessanta giorni

Un’équipe di Organizzazioni non-governative (Ong) pro-vita, americane ed europee, si è incontrata con i funzionari di più alto grado del Kosovo (il Presidente del Kosovo, il Presidente del Parlamento e altri parlamentari) per discutere dei problemi riscontrati nella bozza di Costituzione per il nuovo Stato in via di formazione.

Questi funzionari hanno dichiarato che sono stati gli esperti internazionali a influire sulla natura controversa della nuova Costituzione, ivi compresi i diritti speciali basati sull’“orientamento sessuale” a cui ammettono che i kosovari stessi sono contrarissimi.

Il Presidente Fatmir Sedjiu ha detto al gruppo di Ong che si era «fidato degli esperti» che gli avevano detto che il Kosovo doveva giocoforza comprendere l’orientamento sessuale in modo da dargli una «comprensione contemporanea dei diritti umani internazionali».

Jakup Krasniqi, Presidente dell’Assemblea del Kosovo, ha affermato di essersi opposto all’articolo ma che i rappresentanti dell’ONU, dell’UE e del Consiglio d’Europa gli avevano detto che questo riferimento allineava le leggi del Kosovo a quelle delle altre costituzioni europee.

I kosovari hanno criticato il fatto di non avere avuto accesso alla bozza della Costituzione, nonostante fosse da un anno che venivano incoraggiati a offrire dei “commenti pubblici”. Hanno obiettato anche al fatto che tutti i loro commenti inviati alla Commissione costituzionale, il corpo di esperti responsabile incaricato di redigere la bozza, a quanto pare dovevano essere controllati dal rappresentante di una Ong americana chiamata International Research & Exchanges Board (IREX) durante le procedure.

I leader religiosi del Kosovo si sono lamentati di non aver mai avuto copia della bozza di documento. Dopo aver incontrato i leader cattolici e musulmani, la Commissione ha accettato di omettere parole che altrimenti avrebbero tolto la protezione legale ai non nati. Non ha invece dato riscontro ad altri reclami, affermando tuttavia di aver raggiunto il consensus (cioè un accordo senza dissenzienti).

Subito dopo il varo della Costituzione, la stampa kosovara ha criticato il modo in cui i funzionari, dopo la dichiarazione di indipendenza del 17 febbraio, avevano fatto pressioni per affrettare la procedura di approvazione. Piuttosto che concedere i 120 giorni previsti dalle Nazioni Unite, il Rappresentante speciale dell’UE aveva firmato la legge passandola l’8 di aprile al Presidente, che l’aveva a sua volta approvata immediatamente passandola al voto dell’Assemblea dove non è stata né discussa né votata ma approvata due giorni dopo semplicemente alzandosi in piedi ed applaudendone l’ultima versione.

Al contrario di altre fonti, Tina Kaidanow, che è a capo dell’ambasciata USA a Pristina, ha insistito che non c’era «alcun coinvolgimento internazionale» nella nuova Costituzione. Ha spiegato che il motivo per cui era stata tenuta segreta ai kosovari era perché renderla pubblica sarebbe stato problematico per il Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che non riusciva a trovare un accordo sull’indipendenza del Kosovo, a cui la Russia ancora adesso si oppone. La fretta con cui è stata adottata, ha detto, è dovuta in parte alla necessità di dimostrare il “progresso” della Comunità internazionale verso l’acquisto della sovranità da parte del Kosovo.

Il Presidente della Commissione costituzionale, Hajredin Kuci, ha detto alla stampa che l’intervento della delegazione pro-vita e pro-famiglia è arrivato «troppo tardi». Un osservatore kosovaro però ha dichiarato: «Non è che fossero in ritardo, ma è l’approvazione che è stata fatta troppo presto».

sabato 10 maggio 2008

Golpe di Hezbollah in Libano. Che farà l'Occidente?

Un sanguinoso colpo di Stato che punta a rafforzare l'influenza di Siria e Iran in Libano: il premier Fuad Siniora ha definito così gli scontri di Beirut. La capitale, e con essa il Libano, da ieri è isolata e deserta: chiusi il porto e l'aeroporto, regna la pace di Hezbollah. Il Partito di Dio ha preso il controllo di tutti i quartieri sunniti costringendo alla resa i miliziani di Al Mustaqbal, il movimento di Saad Hariri, mentre sette persone sono rimaste uccise questa mattina in scontri a fuoco ad Aley, circa 20 km a est di Beirut, tra i miliziani di Hezbollah e i drusi del Partito socialista progressista di Walid Jumblatt. Combattimenti si sono registrati nella notte a Sidone, dove due persone sarebbero rimaste uccise, ed a Tripoli. Sei morti anche a un funerale sunnita a Beirut e altri cinque ad Halba, nella regione di Akkar a nord di Tripoli. Il bilancio complessivo sale così ad oltre 30 morti da mercoledì scorso.

La cosa più preoccupante è che l’attività di Hezbollah si va estendendo in tutta la fascia centrale del Libano. L’obiettivo sembra essere il disarmo di ciò che resta di Al Mustaqbal e delle milizie druse nell’area centro-meridionale del Paese, creando in tal modo un blocco sciita di fatto in perfetta continuità territoriale con la Siria. Una prospettiva da incubo che sta già allarmando Israele e i vertici militari di UNIFIL

Di fronte a questo scenario il governo Siniora non può far niente. Anzi, il governo Siniora non esiste più perché un governo che è non in grado di imporre e far rispettare le proprie decisioni non è più tale. Quello che abbiamo davanti è pertanto un colpo di stato. Le decisioni governative che hanno innescato la reazione di Hezbollah sono state solo il pretesto per un’azione che, ci dicono fonti libanesi, era programmata da mesi. Il premier legittimo è prigioniero nei suoi uffici, protetto, si fa per dire, dall’esercito. Hariri, il vero obiettivo dell’azione di Hezbollah in qualità di “azionista” più significativo della maggioranza governativa, è assediato nella sua abitazione; Jumblatt si è rifugiato chissà dove, forse nelle sue roccaforti sul Monte Libano o ancora nella stessa Beirut.

E l’Occidente? L’ONU, l’Unione Europea? Inerti, presi alla sprovvista dalla rapidità degli eventi, ma soprattutto impotenti di fronte alla prospettiva della trasformazione del Libano in avamposto siro-iraniano sul Mediterraneo. Sentite Ban Ki-Moon: “A Beirut è necessario il confronto politico”. Il problema è tra chi, visto che una parte, il governo, ha alzato bandiera bianca. In quanto a comicità, peggio ha fatto solo l’Unione Europea che, ancora stamattina, ribadiva il pieno appoggio ad un morto, ovvero il governo Siniora. Probabilmente a Bruxelles non si sono accorti come la situazione abbia assunto una dinamica nuova, ancor più drammatica per le conseguenze che potrebbe portare: a Beirut adesso comanda Hezbollah insieme ai suoi alleati di Amal e del Partito Nazionale Socialista Siriano, quest’ultimo bieca emanazione del servizio segreto di Damasco.

In Italia, il nuovo ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha assicurato un ponte aereo pronto ad evacuare gli italiani che si trovano in Libano. Ma il nuovo inquilino della Farnesina dovrà anche pensare a come recuperare il Libano per evitare che il cerchio ai danni di Israele si chiuda una volta per tutte. Come se non bastasse, tra i due fuochi ci sono sempre i 13.000 caschi blu di UNIFIL, di cui 2.500 italiani. Le carte in tavolo sono cambiate anche per loro. Uno dei compiti principali di UNIFIL era di supportare il governo Siniora. Questo compito oggi è venuto meno perché un governo, in Libano, non c’è più. O meglio, c’è ma non è quello che fino al 6 maggio tutte le potenze occidentali hanno sostenuto, almeno a parole.

Ora in Libano sono Siria e Iran ad avere il bastone del comando. Se la prospettiva che va delineandosi in queste ore dovesse consolidarsi, Damasco otterrebbe la tanto auspicata continuità territoriale con il Libano, e così un agile accesso al mare da Beirut, e l’Iran il fondamentale vantaggio geopolitico dato da uno sbocco sul Mediterraneo. E’ bene quindi che i paesi europei e gli Stati Uniti aprano finalmente gli occhi e inizino a misurarsi con la realtà. Lo stesso devono fare Egitto e Arabia Saudita che non possono permettersi che il Libano diventi un satellite di Damasco e Teheran. Gli USA hanno già i loro problemi in Iraq e Afghanistan, ma non possono permettersi di perdere il Libano lasciando solo Israele a fronteggiare Hezbollah, Siria ed Iran. E questa volta gli europei, in particolare Francia e Italia, non potranno tirarsi indietro, ne va del loro prestigio, della vita dei loro soldati a sud del Litani e di ciò che resta della loro influenza nel Mediterraneo Orientale. Bisogna agire, e presto, prima che la destabilizzazione iraniana trabordi dal Libano per incendiare definitivamente tutto il Medio Oriente.

di Pietro Batacchi

Tutta l'Europa gira a destra

di Gianni Baget Bozzo - 10 maggio 2008.

L'unico governo dell'Europa occidentale che è rimasto a sinistra è il governo di Josè Luis Rodriguez Zapatero. Ma lo è perché il Partito Popolare non è post-democristiano, ma post-franchista. Altrove la forza propulsiva della sinistra sta perdendo quota. Le elezioni italiane, in un paese in cui la grande narrazione della sinistra aveva dominato non solo la politica ma anche la cultura, lo rendono evidente. La narrazione della sinistra è tutta interna alla storia dell'Occidente: la sinistra si è pensata come il soggetto della storia mondiale chiamato a redimere il capitalismo dalle sue colpe originarie. E' proprio a causa di questo limite di storia interna all'Europa - e all'Europa occidentale - che il socialismo come orizzonte ha perso senso e ormai ha ceduto tutta la sua capacità di valere come orizzonte morale.

Invece, in Europa occidentale, subentra una paura, nata dalla coscienza che il mondo euro-americano non è più il centro del mondo e che esso si avvia a diventare una periferia di fronte all'emergere del «modo di produzione asiatico» in Cina - ormai in termini diversi da quello che pensava Marx - o della capacità di creatività tecnologica della cultura che inventò lo zero in matematica, l'India. E poi il Vietnam, l'Indonesia. E poi il grande mare verde, l'oceano islamico, da Casablanca a Giakarta. Attraverso l'India, in cui esiste, in un regime democratico a predominanza induista, la maggior comunità islamica del mondo in uno Stato. E poi l'America latina, dove il Brasile scopre l'etanolo e diviene una grande potenza economica, mentre l'orizzonte politico sta tra il centro e la sinistra, sempre con accenti anti-yankee. Anche l'America non è più la stessa, se Barack Obama esprime il fascino della ricerca di un destino diverso da quello che la politica dei due partiti dominanti e delle loro dinastie, Clinton e Bush, aveva offerto sinora.

Dov'è l'Europa occidentale in questo grande mondo che cambia? E poi la Russia di Putin alleato o nemico: l'ortocrazia serve a difendere lo spazio russo dall'immigrazione cinese e a mantenere un'influenza nel Caucaso e nei paesi turcofoni? Oppure Putin, non essendo democratico in senso occidentale, non è più nemmeno pensabile come amico di fronte ai medesimi nemici, potenziali o attuali? E poi la sfida ecologica, importante nell'opinione pubblica mondiale: se Al Gore sarà il decisore della scelta tra Hilary ed Obama. E se il patriarca di Costaninopoli, Bartolomeo I, che in Turchia è il parroco del Fanar e non il patriarca ecumenico, viene preferito a Benedetto XVI nell'elenco delle cento persone più influenti nel mondo. Poi vi è l'incertezza sul fatto che le istituzioni possano controllare gli strumenti prodotti dall'informatica: il timore è che essi possano sfuggire al controllo dell'uomo creando realtà superintelligenti oltre la ragione umana ma senza cuore umano.

Il mondo diviene una realtà in tutte le nazioni, in tutte le politiche. Si incrocia con le politiche locali e finisce per condizionarle. L'orizzonte dell'uomo di oggi non riesce più ad essere nazionale, ma diviene inevitabilmente mondiale: il problema della futura civiltà si dispone con un interrogativo non risolto sulle scelte immediate che stanno dinanzi a cittadini ed elettori e condizionano i governi che essi eleggono. E' questo sentimento mondiale che porta l'Europa fuori dalla narrazione del secolo scorso, che la sinistra esprime ancora come orizzonte morale. E' per questo bisogno di rassicurazione sul fatto che l'Europa rimanga Europa che gli europei si rivolgono ai governi di destra: perché non hanno miti e non hanno soluzioni, sono più simili ai cittadini che li votano.

L’EUGENETICA RIENTRA DALLA FINESTRA

di Francesco D’Agostino.

E’ un dovere per tutti, anche per i ministri e le ministre, rispettare la legge. È doveroso rispettarne la lettera e, ancor più, lo spirito. E soprattutto è doveroso per tutti, anche per le ministre, praticare l’onestà intellettuale: non ci si può ad esempio vantare di applicare «rigorosamente » una legge (come ha fatto la ministra Livia Turco nel comunicato che accompagna l’emanazione delle nuove Linee guida di applicazione della legge sulla Procreazione assistita), quando se ne viola lo spirito – e con ogni probabilità anche la lettera.La legge 40/2004 – che invano, ricordiamocelo, si è cercato di abrogare tramite referendum – prende le mosse da due principi fondamentali: la doverosa tutela dell’interesse procreativo delle coppie sterili, che intendano ricorrere alle tecniche di procreazione assistita; la doverosa garanzia, nell’applicazione di queste tecniche, dei diritti del nascituro, primo tra tutti quello di venire al mondo. Il riferimento che la legge fa alla sterilità, come presupposto per l’accesso alle pratiche di procreazione, è essenziale, per mantenere loro un doveroso carattere terapeutico ed escluderne qualunque uso a fini di mera manipolazione. Per garantire il diritto alla vita del nascituro, la legge impone (salvo casi eccezionali) di produrre in provetta solo quegli embrioni (al massimo tre) per i quali la donna sia disposta ad accettare il trasferimento in utero e vieta rigorosamente qualsiasi forma a carico degli embrioni di selezione eugenetica.Le nuove Linee guida violano palesemente ambedue questi principi. Innovando alla precedente regolamentazione, esse ammettono alla fecondazione assistita coppie, il cui partner maschile sia portatore di patologie sessualmente trasmissibili. L’argomento utilizzato dalla ministra per giustificare questa disposizione è che a tali uomini andrebbe riconosciuto «uno stato di infertilità di fatto »: categoria, questa, scientificamente priva di senso (dato che costoro sono comunque in grado di procreare) e giuridicamente ambigua: un uomo potrebbe ad esempio essere ritenuto «di fatto » non fertile, solo perché privo di partner femminile (magari intenzionalmente, come può avvenire nel caso degli omosessuali). La realtà è che alterando con le nuove Linee guida l’ancoraggio della legge 40 alla sterilità, si muta in radice tutto lo spirito della legge.Ancora più grave un’altra innovazione delle Linee guida appena pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale. Si ribadisce la disposizione che proibisce di sottoporre gli embrioni creati in provetta a diagnosi pre-impianto a finalità eugenetica, ma si cassano i paragrafi delle vecchie linee guida che limitavano le indagini sullo stato di salute degli embrioni a quelle strettamente «osservazionali». La posta in gioco è chiara: aprire la strada a test genetici pre-impiantatori. Con due risvolti: il primo concerne la salute degli embrioni, perché qualunque diagnosi che non sia meramente osservazionale ne pone a rischio la sopravvivenza (contraddicendo dunque lo spirito della legge, che vuole salvaguardare il loro diritto alla vita). Il secondo risvolto è ancora più grave: vengono ad essere di fatto consentite le diagnosi a finalità eugenetica, pur formalmente proibite dalla legge. Quando infatti, grazie a un test genetico, si informasse la donna che dei due o tre embrioni procreati in provetta uno solo è portatore di una qualsiasi patologia (anche se pienamente compatibile con la sopravvivenza) l’esito probabile sarebbe la richiesta della donna di accogliere in utero solo gli embrioni 'sani' e di escludere dall’impianto l’ embrione 'malato' (e basterebbe già sottolineare il carattere solo probabilistico dei test genetici per rilevare la gravità bioetica di simili pratiche, che portano inevitabilmente alla distruzione di embrioni sani). La stessa strada potrebbe essere percorsa per selezionare il sesso del nascituro, trasferendo in utero, dopo un adeguato test genetico, solo l’embrione del sesso desiderato.L’eugenetica, tenuta fuori dalla porta, rientra così dalla finestra. È innegabile che esista in molte coppie un desiderio di selezione eugenetica dei nascituri (desiderio in alcuni casi, come quelli di patologie estremamente gravi, anche umanamente comprensibile), ma è altrettanto innegabile che questo desiderio non è compatibile col rispetto per le vite create in provetta. Non solo la lettera, ma anche e soprattutto lo spirito della legge 40 a favore della tutela della vita embrionale sono inequivocabili: le nuove Linee guida alterano significativamente l’una e l’altro.Eppure dovremmo tutti, anche le ministre – e soprattutto le ministre di un Governo giunto alla fine del suo mandato –, rispettare con onestà intellettuale la legge vigente, sia nella sua lettera che nel suo spirito.

Avvenire 1 maggio 2008

Il capitalismo fa sempre bene, ben temperato

Talvolta va però protetto da se stesso. Con un bel libro a cui attingiamo, lo dicono due specialisti, uno indiano e l’altro italiano, che ci mettono in guardia da quei liberisti che finiscono per farsi protezionisti. Ovvio, scattano le critiche: ma sono manna perché il dibattito sta tutto sulla necessità di regole vere.

di Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales

Il punto fondamentale di questo libro è che i liberi mercati, forse l’istituzione economica più benefica nota al genere umano, poggiano su fondamenta politiche fragili. In un’economia di mercato competitiva, sono le decisioni di una miriade di partecipanti anonimi a determinare i prezzi, i quali a loro volta determinano che cosa viene prodotto e chi viene ricompensato. La mano invisibile del mercato si sostituisce ai burocrati e ai politici in tutte queste decisioni. Ciò ha dato luogo all’erronea percezione che i mercati non abbiano bisogno dello stato. Ma i mercati non possono prosperare senza l’intervento visibile dello stato, indispensabile per realizzare e mantenere l’infrastruttura che consenta ai partecipanti di commerciare liberamente e con fiducia.È qui che nasce la tensione politica: le stesse difficoltà di organizzare azioni collettive che rendono necessario l’intervento dello stato impediscono al pubblico di fare in modo che il governo agisca nel pubblico interesse. Gli interessi privati organizzati possono quindi avere la meglio sui più vasti interessi pubblici. Lo scenario da incubo, che si è presentato in passato, si ha quando, con il pretesto di conquistare maggiore sicurezza per i disagiati, le classi dominanti ottengono invece la propria sicurezza sopprimendo il mercato. Chi ci rimette è il libero mercato e tutti coloro che vi si rivolgono in cerca di nuove opportunità.

Abbiamo delineato alcuni scenari che potrebbero causare un rapido incremento del numero dei disagiati, sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in via di sviluppo. Abbiamo spiegato, inoltre, che genere di élite può avere maggiore interesse a nutrirsi delle paure e speranze dei disagiati.Descritti i pericoli, passiamo a proporre alcune soluzioni. Date le tensioni che stanno alla base del problema, la cura miracolosa non esiste. Sollecitare un intervento massiccio dello stato implica il rischio che l’intervento sia manipolato dall’establishment. Invocare la neutralizzazione dello stato significa correre il rischio che l’infrastruttura necessaria rimanga sottosviluppata e che il mercato sia oltremodo esposto a una violenta reazione politica durante l’inevitabile processo di distruzione. L’unica via di uscita è formulare una serie di proposte che possano controllarsi ed equilibrarsi a vicenda in modo tale che lo stato sostenga il funzionamento del mercato, ma senza intromettersi. Ogni proposta, presa singolarmente, può sembrare buona, o anche controproducente. Ma insieme costituiscono una forza a sostegno dei mercati.

Le nostre proposte si fondano su quattro pilastri. In primo luogo, le élite hanno meno capacità a frenare il mercato quando sono più potenti, e meno interesse quando sono più competitive. Quindi è importante garantire che la proprietà non sia concentrata nelle mani di pochi, e che chi la possiede sia capace di utilizzarla in maniera efficiente. In secondo luogo, la competizione crea degli sconfitti. È essenziale disporre di una rete di protezione per i disagiati, che non consenta loro soltanto di superare i periodi ciclici di flessione economica ma che li aiuti a riprendersi dalla perdita completa di una carriera lavorativa. In terzo luogo, è possibile limitare lo spazio di manovra politica mantenendo aperti i confini. Ovviamente, in casi estremi, i confini vengono chiusi forzatamente dai gruppi antimercato, ma è per questo che i quattro pilastri si sostengono l’un l’altro. Infine, il pubblico deve essere reso più consapevole dei benefici che trae dai mercati e degli svantaggi determinati da politiche anticoncorrenziali apparentemente innocue, in modo tale che sia meno disposto a restare passivamente a guardare. Esaminiamo le proposte in dettaglio.

L’establishment e il mercato.
Non possiamo cancellare il dato di fatto che il potere economico si traduce in potere politico. Per quanto buona sia la legge sui finanziamenti elettorali, una certa forma di regola aurea (chi ha l’oro detta le leggi) sarà sempre valida. Ma il legame tra il potere economico e quello politico è particolarmente problematico in due casi. Se il potere economico è concentrato nelle mani di poche élite, queste possono fare affidamento sulla propria influenza politica per raggiungere obiettivi economici e non sentire il bisogno di introdurre regole trasparenti che rendano il mercato accessibile a tutti. Questo rappresenta un problema ben più grave in quei paesi che non dispongono di una solida infrastruttura di mercato, perché gli stimoli a crearla sono di conseguenza ulteriormente ridotti. Ma quando le élite sono inefficienti, non si limitano ad essere indifferenti verso i mercati ma tentano di sopprimere attivamente la competizione per tutelare le proprie posizioni.I due problemi sono correlati. Un esempio può aiutare a fare chiarezza. Il commercio dei diamanti in India è dominato da una piccola comunità di giainisti Palanpuri del Gujarat. Per quasi mezzo secolo questi commercianti hanno lavorato in segretezza, trattando in gran parte con i membri di altre grandi famiglie e senza sottoscrivere contratti legali, per acquistare, tagliare, lucidare e rivendere diamanti in tutto il mondo. Il loro successo è stato enorme, tanto che oggi, nel mondo, nove diamanti su dieci passano dall’India. Il motivo per cui questo sistema ha funzionato finora in un paese con un sistema giuridico scricchiolante è che è fondato sulla fiducia.

La comunità ostracizza chiunque violi gli accordi impliciti tra i commercianti. Il problema, tuttavia, è che gli outsiders non possono prendere parte al sistema, e gli insiders non hanno stimoli a realizzarne uno più trasparente e concorrenziale: è più facile creare fiducia quando i profitti sono abbondanti e il commercio è circoscritto a un piccolo gruppo di persone ben conosciute.La concentrazione del commercio nelle mani di pochi può essere dannosa anche nel caso in cui il sistema smetta di funzionare. E ci sono segnali di questo a mano a mano che il commercio si estende e si rende necessario fare affari con un numero sempre maggiore di outsiders: recentemente uno spedizioniere è scappato trafugando diamanti per un valore di 10 milioni di dollari, e due operatori di Bombay hanno perso tutto il denaro dei loro clienti in speculazioni di Borsa (per la vergogna entrambi si sono tolti la vita). Ma i membri della comunità giainista non accettano volentieri la modernizzazione e la professionalizzazione, per quanto necessarie, perché queste trasformazioni porterebbero anche la concorrenza. Perciò i cambiamenti stanno avvenendo lentamente, forse anche troppo. Il punto è che la concentrazione del potere economico, benché attualmente favorevole, non deve per forza rimanere sempre tale, in particolare se i pochi privilegiati fanno affari a modo loro.

Tutto questo ci indica due obiettivi: impedire l’eccessiva concentrazione del potere economico – obiettivo che riguarda in modo particolare i paesi in via di sviluppo – e fare in modo che chi controlla le risorse economiche sia in grado di usarle efficientemente.I due obiettivi sono spesso, ma non sempre, compatibili. È chiaro, ad esempio, che la politica del sottoporre le imprese alla concorrenza esterna aiuta a mantenerle efficienti: un settore protetto ha ben pochi stimoli a essere competitivo e utilizza le sopravvenienze attive dovute alla posizione privilegiata per ottenere ulteriori protezioni tramite pressioni politiche, anziché a scopi di ristrutturazione. Il modello di automobile indiana Ambassador (una versione della britannica Morris Oxford) fu introdotto sul mercato nel 1957 e venduto quasi senza innovazioni fino al marzo del 2002, per il semplice fatto che per gran parte della sua storia la concorrenza interna è stata irrilevante, e quella straniera inesistente. Anche una cosiddetta cessazione temporanea della disciplina, come nel caso dei recenti dazi sull’acciaio negli Stati Uniti, destinati a scomparire nel giro di pochi anni, rischia di creare élite che, incapaci di competere, si battono per rendere le barriere permanenti.Ma al fine di competere nella giusta misura in un mercato globale, un’impresa di un piccolo paese può finire per rappresentare una fetta consistente della produzione economica del paese. Aziende come Nokia, in Finlandia, hanno un’influenza notevole a livello nazionale. Bisogna vedere se queste aziende usano la propria influenza in maniera responsabile, aiutando a migliorare l’accesso di altri operatori al mercato, o se invece l’utilizzano per restringere l’accesso e monopolizzare le risorse nazionali; questo determina se sia necessario o meno mettere in moto ulteriori strumenti politici.

Antitrust per la politicaUno di questi strumenti è la legislazione antitrust. Le leggi antitrust sono state concepite fino a oggi nel contesto del mercato dei prodotti: i legislatori si domandando se un’azienda assorbe una parte troppo consistente della produzione, se esiste o si sta sviluppando una concorrenza esterna che contribuisca a contenere i prezzi, ecc. Queste leggi sono state utilizzate per impedire alle aziende di monopolizzare interi settori e ricavare dai consumatori profitti sopra la norma. Un ulteriore effetto benefico è che la concorrenza contribuisce a mantenere le imprese competitive impedendo loro di assaporare la vita tranquilla e debilitante tipica del monopolio.Ma è importante che i paesi prendano in considerazione anche l’ipotesi di una versione politica della legge antitrust: una legge che impedisca a un’azienda di crescere al punto tale da esercitare un’influenza sulla politica nazionale ed essere in grado di soffocare le forze del mercato. Elaborare con precisione una legge di questo tipo comporta evidenti problemi, ma negli Stati Uniti è già implicitamente in vigore, in particolare nel settore finanziario. L’attacco di Andrew Jackson alla Second Bank degli Stati Uniti (l’allora banca centrale) negli anni ’30 del XIX secolo, lo smantellamento di Standard Oil del magnate John D. Rockefeller nel 1911, la creazione della Federal Reserve nel 1913 per controbilanciare lo strapotere dei Morgan, il Glass-Steagall Act del 1933 volto ad arginare il potere delle grandi banche nazionali, e le cause in corso contro Microsoft possono considerarsi tutte conseguenze di un’implicita legge antitrust per la politica. C’è il rischio che una legge con queste caratteristiche sia soggetta ad abusi contro chi non è nei favori del governo. Ecco perché ha senso solo come parte integrante della nostra proposta complessiva, che comprende altri strumenti di controllo ed equilibrio sul governo.

L’imposta patrimonialeUna modifica del sistema fiscale offre un’ulteriore possibilità di creare stimoli all’efficienza. Nell’attuale sistema di imposte sul reddito, chi produce di più paga di più. Di conseguenza, i manager efficienti che producono di più devono dividere con lo stato, sotto forma di tasse più elevate, i guadagni addizionali meritati con la propria efficienza. Lo stato, inoltre, assorbe una parte delle perdite dei manager incompetenti (incassando meno tasse). Ma tutto ciò favorisce chi è inefficiente. Chi spreca risorse facendo spese lussuose e stravaganti o chi effettua gli investimenti sbagliati è aiutato dal sistema fiscale che assorbe parte di queste spese o perdite, mentre i manager efficienti risultano penalizzati perché una parte del loro valore aggiunto finisce allo stato.Non tutti i sistemi fiscali hanno tali conseguenze. Un’imposta basata sulla proprietà (e non sul reddito) tende a penalizzare gli inefficienti e premiare gli efficienti. Per capire come, prendiamo in considerazione un’imposta dell’uno per cento su tutti i beni produttivi che una persona possiede direttamente. Su un terreno agricolo del valore di un milione di dollari l’imposta ammonterebbe a 10 000 dollari. Supponiamo che un aspirante scrittore proveniente dalla città e amante della campagna ma non molto abile a coltivare la terra riesca a farla fruttare per soli 5000 dollari in termini di reddito netto. Oltre a versare allo stato tutti i proventi della coltivazione, deve cercare di ricavare altrettanto da qualche altra parte. Se i suoi libri non vendono o non riesce a fare pressioni per ottenere sussidi agli agricoltori, sarà costretto a vendere la terra a qualcuno in grado di coltivarla meglio.

Mettiamolo a confronto con un agricoltore locale che conosce il mestiere e riesce a far fruttare fino a 100000 dollari lo stesso pezzo di terra. Solo un decimo del suo reddito finisce in tasse. E cosa più importante, se riesce a migliorare la produttività dei campi incrementando il proprio reddito a 150 000 dollari, tiene per sé tutti i guadagni aggiuntivi anziché solo una parte di essi come accade in un sistema di imposte sui redditi. Può inoltre espandersi acquistando la terra del dilettante cittadino. Egli non ha il minimo interesse a lottare per i sussidi agli agricoltori o le barriere commerciali contro i prodotti stranieri: i sussidi manterrebbero il dilettante sul mercato impedendo a lui di espandersi, e le barriere commerciali darebbero luogo a provvedimenti simili da parte di altri paesi che ostacolerebbero la vendita all’estero dei suoi prodotti. In tal modo, un’imposta patrimoniale favorisce i produttori efficienti e contribuisce a consolidare le forze favorevoli al mercato.Alcuni lettori potrebbero domandarsi perché un libero mercato fondiario non porti a un’efficiente allocazione delle risorse. In altre parole, per quale motivo il bravo contadino non liquida lo scrittore inefficiente? Il problema è che lo scrittore ricava dalla terra un valore psichico, non monetario, che compensa la sua incompetenza nel coltivarla. Questo reddito psichico non è tassato. Di conseguenza, anche nel caso in cui il reddito psichico dello scrittore non compensi la perdita di quello monetario, il contadino avrà difficoltà a liquidarlo.

Nell’attuale sistema fiscale il reddito psichico è esente da imposte mentre chiunque produca un reddito monetario deve farsi carico dell’onere fiscale. Perciò, a parità di tutti gli altri fattori, il produttore del reddito monetario è disposto a pagare meno per una proprietà rispetto a chi ne ricava un reddito psichico. Analogamente, il regime fiscale attuale sovvenziona la sopravvivenza di uomini d’affari incompetenti che ricavano un vantaggio personale nel dirigere le aziende. Simili inefficienze possono essere evitate passando da imposte sul reddito generato dalla proprietà a una tassa sul valore della proprietà stessa.Esistono certamente alcuni problemi relativi al modo di amministrare un sistema di questo tipo. Ad esempio, come misurare il valore della proprietà? Non è possibile misurarlo sulla base del valore dei beni al momento in cui questi sono sotto il controllo del produttore inefficiente, perché ciò ne farebbe scendere artificialmente il valore e di conseguenza ridurrebbe anche gli oneri fiscali a carico del proprietario. Per evitare di ricompensare l’incompetenza, il valore andrebbe misurato come il valore di mercato di questa proprietà se gestita dal manager medio. Esistono metodi che permettono di fare questa stima con precisione. I problemi legati all’amministrazione di un sistema basato sull’imposta patrimoniale non sono a nostro avviso maggiori rispetto alle complessità che caratterizzano il sistema delle imposte sul reddito.La principale argomentazione contro l’imposta patrimoniale è sempre stata che scoraggerebbe gli investimenti. In presenza di certi presupposti relativi al momento in cui l’imposta è introdotta, in effetti è così: per un dato livello del gettito fiscale, l’imposta patrimoniale diminuisce gli incentivi all’investimento più di quanto non faccia l’imposta sul reddito. Ciò è tuttavia compensato dai vantaggi che un sistema basato sull’imposta patrimoniale offre nell’allocare la proprietà in mani più efficienti, il che contribuisce sia al generale benessere della società, sia alla stabilità del sistema del libero mercato. Perciò appare sensato trasferire almeno parte degli oneri fiscali dal reddito alla proprietà.

Per gentile concessione dell’agenzia Luigi Bernabò Associates

I piani di Stalin per conquistare il mondo

In Germania è uscito un nuovo saggio di Bogdan Musial nel quale viene spiegata la strategia di Stalin di utilizzare la guerra per promuovere una rivoluzione planetaria…

Non è raro accada in Germania, che per mettere in discussione tabù storici altrimenti indiscutibili si debba attendere il coraggio e l’intraprendenza di storici di altra nazionalità.E’ di questi giorni la pubblicazione di un nuovo saggio di Bogdan Musial (“Kampfplatz Deutschland, Stalins Kriegspläne gegen den Westen”, Propyläen Verlag, Berlin 2008), polacco, che nel 1985 ricevette asilo politico dalla Repubblica Federale, per poi diventare naturalizzato tedesco nel 1992. Specializzatosi nel 1998 con un dottorato sulla condizione degli ebrei nei territori polacchi durante la Seconda Guerra Mondiale, da quello stesso anno Musial ha all’attivo una lunga collaborazione con l’Istituto Storico Tedesco di Varsavia, grazie alla quale ha potuto studiare i documenti, prima inaccessibili, relativi ai crimini compiuti dai sovietici in Polonia attraverso il N. K. V. D. Inutile aggiungere che il suo lavoro di verifica dei fatti attraverso i documenti lo espone alla facile e superficiale accusa di “revisionismo”.Fin dall’introduzione s’intende quale fosse l’obiettivo dello storico: dimostrare come dall’inizio, dal putsch dell’ottobre 1917, fino alla Seconda Guerra Mondiale, i bolscevichi, mossi dall’idea della rivoluzione mondiale, abbiano perseguito l’espansione verso ovest (“Chi possiede Berlino”, aveva detto Lenin, “possiede l’Europa”). Il fallimento dell’ultimo tentativo rivoluzionario tedesco dell’ottobre 1923, sostiene Musial, avrebbe convinto Stalin e suoi a scegliere la guerra quale strategia per suscitare la rivoluzione planetaria.E’ noto quanto sia a tutt’oggi limitato l’accesso alle fonti di ciò che accadde in quei decenni dietro le mura del Cremlino: ha tanto più valore dunque il fatto che allo storico polacco-tedesco siano stati consentiti l’accesso agli archivi di partito, statali e militari di Mosca e Minsk, la visione dei protocolli segreti del Politburo, degli atti del Komintern, dei rapporti della polizia segreta (GPU), dei protocolli delle sedute del Consiglio Superiore di Guerra, come pure dei documenti riguardanti le principali figure della nomenclatura bolscevica (Kaganovic, Malenkow, Molotov, Voroshilov ed altri).Musial ricorda come figura centrale del gigantesco programma di armamento dell’URSS sia stato il maresciallo Michail Tuchacevski, cui venne affidato il piano quinquennale (dall’ottobre 1928) secondo il quale andavano costruiti 50. 000 carri armati e 40. 000 aerei. Il “compagno Tuchski” sostenne tra l’altro la necessità dell’“annientamento totale dell’esercito nemico” attraverso “il massiccio impiego” di quelle armi chimiche già sperimentate nel 1921 contro i contadini nel distretto di Tamobv, a sud-est di Mosca.Musial ricostruisce in maniera efficace lo stretto, inevitabile rapporto instauratosi tra la ricerca delle risorse finanziarie necessarie per sostenere la politica d’armamento e i piani di sviluppo industriale e di produttività della terra. Nel descrivere i processi di “accumulo socialista” attraverso la collettivizzazione forzata ricorda i circa 12 milioni di morti causati dalla fame in Ucraina e nella Russia meridionale nei primi anni Trenta. “La collaborazione di migliaia di ucraini, russi, tatari, cechi e altri”, arriva a sostenere Musial, “con gli occupanti tedeschi negli 1941-1944 non è comprensibile se si ignorano quel terrore di massa e quei milioni di morti provocati dal comunismo negli anni Trenta. ”Pur senza mettere in discussione il fatto che la campagna hitleriana contro l’Unione Sovietica sia stata una guerra d’aggressione, Musial giunge alla conclusione che con l’attacco iniziato il 22 giugno 1941, Hitler avrebbe anticipato la pianificata offensiva dell’URSS alla Germania. Facile intendere come la riproposizione di questa tesi, sostenuta anche da altri storici (Walter Post, Heinz Magenheimer, Joachim Hoffmann e Stefan Schell), non farà che rianimare un dibattito tutt’altro che risolto.

Vito Punzi.
L'Occidentale 4 maggio 2008

Il colpo di mano di Livia Turco

FOGLIO – 1 maggio 2008

Roma. L’emanazione in zona Cesarini delle nuove linee guida della legge 40 ha, come scopo non secondario, quello di buttare un bel petardo tra i piedi della maggioranza. Ora investita della responsabilità di decidere se tenersi quel provvedimento così com’è, con tutte le sue ambiguità e con le porte spalancate alla diagnosi eugenetica preimpianto, oppure se cambiarla, con il rischio di riaprire vecchie crepe e turbare equilibri delicati.

Non è difficile immaginare che a questo abbia pensato la ministra Livia Turco, che quel testo lo aveva firmato l’11 aprile ma se l’è tenuto nel cassetto fino a ieri, per non turbare la propria, di maggioranza, in vista delle elezioni. Senza contare che l’emanazione di un atto che nessuno potrebbe definire “di ordinaria amministrazione” appare una scorrettezza istituzionale, come dice al Foglio il professor Francesco Saverio Marini, docente di Istituzioni di Diritto pubblico all’Università di Tor Vergata: “Al governo dimissionario tocca solo il disbrigo degli affari correnti e degli atti indifferibili e urgenti, gravati da scadenze prescrittive. Non era certo il caso delle linee guida della legge 40, che a questo punto toccavano al nuovo governo. Senza contare che la sentenza del Tar del Lazio, che nel nuevo testo è richiamata per giustificare l’eliminazione della parte che consente esclusivamente indagini di tipo osservazionale dell’embrione, ha rimandato la questione alla Consulta, la quale deve ancora pronunciarsi”.

Doppia scorrettezza di metodo, quindi, per l’iniziativa della Turco. Ma il peggio lo troviamo nell’analisi del merito del suo provvedimento, che apre, con l’aria di non volerlo fare, un importante varco nel divieto di pratiche eugenetiche contenuto nelle precedente linee guida, in osservanza ai principi della legge 40. Se è infatti formalmente conservato il divieto di “diagnosi preimpianto a finalità eugenetica”, in realtà lo si aggira, come spiega Eugenia Roccella (Pdl): “D’ora in poi potranno essere usate sull’embrione tutte le tecniche diagnostiche, compresi i test genetici, in teoria solo a fini ‘conoscitivi’. Ma anche la ministra Turco sa che l’indagine osservazionale, l’unica consentita in precedenza, ha lo scopo di informare la coppia su anomalie gravi e irreversibili dell’embrione, che ne impedirebbero lo stesso sviluppo in utero; la diagnosi preimpianto, invece, è un test genetico che individua patologie che non impediscono necesariamente la crescita e l’impianto dell’embrione, ma hanno un tasso di probabilità più o meno alto di manifestarsi nel feto o sucesivamente nell’adulto. Con queste informazioni, la coppia che ricorre alla procreazione assistita potrebbe rifiutare l’impianto dell’embrione ‘difettoso’”. Eugenetica significa selezione dei sani ed eliminazione dei malati, ed è quello che diventa possibile con la nuova versione delle linee guida.

“Può forse esistere una diagnosi preimpianto che non abbia scopi eugenetici?”: la domanda dell’associazione Medicina e Persona ha una sola possibile risposta, nei fatti, ed è negativa.

L’altro varco è l’estensione a coppie non infertili della possibilità di usare tecniche di fecondazione assistita, come nel caso delle situazioni in cui il maschio sia affetto da malattie sessualmente trasmissibili, quali il virus Hiv e quelli delle epatiti B e C. A queste coppie, le nuove linee guida riconoscono, come spiega Livia Turco nella lettera di accompagnamento del suo provvedimento, uno “statu di infertilità di fatto”, dovuto alla necessità di precauzioni nel rapporto sessuale. Un criterio ambiguo e suscettibile di ogni possibile ampliamento: perché non riconoscere l’infertilità “di fatto” alle coppie portatrici di disfunzioni genetiche, anche loro “costrette” a precauzioni per timore di un figlio malato?

E infatti ci ha già pensato Amica cicogna, che promette azioni legali in proposito, mentre la lobby della fecondazione senza limiti mostra apprezzamento per le nuove linee guida. Definite, sull’altro versante, “un colpo di mano” dall’Associazione Scienza & Vita, che chiede al nuovo governo di azzerarle e di “ripristinare la legittimità del risultato referendario”.

SE IL CLIMA DIVENTA UN ATTO DI FEDE

di Ruth Lea

Essere liberi di parlare — anche quando si è in errore — è il sintomo di una società che sta bene. L'attuale dibattito sui cambiamenti climatici è tipico di una società chiusa così convinta della sua virtù che persino il porre delle domande contrarie alle sue severe credenze equivale a macchiarsi di alto tradimento. Le sfide all'ipotesi oggi in voga hanno come risultato l'offesa nei modi più scorretti di chi ha idee contrarie alla visione corrente. Infatti, la sfortunata persona in questione finisce con l'essere etichettata come "negazionista del cambiamento climatico", un po' come un negazionista dell'Olocausto, tale è il bullismo di certi insulti.

Interrogarsi sull'ipotesi che il cambiamento climatico sia principalmente causato dalla CO2 prodotta dall'uomo, naturalmente non equivale a negarlo. In realtà, il cambiamento climatico è una caratteristica del nostro pianeta sin dalla sua origine. In 4.500 milioni di anni ci sono stati periodi in cui era sensibilmente più freddo e periodi in cui era sensibilmente più caldo di quanto sia oggi. Apparentemente, nel passato più recente, dai 4.000 agli 8.000 anni fa, era più caldo di adesso. Altri periodi caldi sono stati l'era della Roma classica ed il periodo medievale. Tra il XVI al XIX secolo venivano accesi fuochi sul fiume Tamigi completamente ghiacciato ed era tale il freddo negli Anni '70 che gli scienziati prevedevano una nuova era glaciale. Allora si pensava che saremmo morti ghiacciati, ora che moriremo arrostiti. È chiaro che altre variabili al di fuori delle emissioni antropogeniche di anidride guidano il cambiamento climatico.

Gli ambientalisti contro lo sviluppo dei Paesi ricchi qualche anno fa hanno convenientemente scoperto e adottato il surriscaldamento globale come un'arma assai potente in loro possesso per combattere le forze dello sviluppo economico. È davvero straordinaria la loro alta considerazione politica, costruita attraverso visioni apocalittiche di fame e pestilenze se non si smetterà di utilizzare carburanti di origine fossile. Ma quando le più oscure previsioni su un pianeta surriscaldato non si materializzeranno, sicuramente verranno fatte delle domande. E dovremmo allora notare che la temperatura globale non è cresciuta sin dall'entrata nel nuovo millennio e quest'anno molte zone dell'emisfero nord hanno patito un inverno furiosamente freddo. La domanda più esigente sarà sicuramente posta da coloro che hanno dovuto sopportare i costi più alti per "combattere" o "controllare" il cambiamento climatico, attraverso la restrizione delle loro emissioni e il conseguente innalzamento dei costi che ha messo a repentaglio la loro competitività

Nel 1997 il Protocollo di Kyoto è stato siglato da molti Paesi sviluppati (anche se non dagli Stati Uniti), inclusa l'Europa a 15. Il suo obiettivo era di mitigare e controllare il cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra (GHG), delle quali quelle di anidride carbonica costituiscono la parte più significativa. L'assunto fondamentale su cui si basava Kyoto era che l'ipotesi che vi fosse una connessione tra cambiamento climatico ed emissioni di gas serra fosse inequivocabilmente comprovata daj fatti e che, quindi, riducendo le emissioni il clima sarebbe stato in qualche modo tenuto sotto controllo. Idea scientificamente molto traballante, dal momento che tutti questi assunti non sono mai stati messi in discussione. L'Europa concordò sul taglio delle emissioni dell'8% in cinque anni, tra il 2008 e il 2012, sulla base della comparazione con il 1990.
Il target era ambizioso e rifletteva la volontà dell'UE di essere leader dei sostenitori del Protocollo di Kyoto. In base allo schema del burden sharing europeo, i diversi Stati membri hanno ricevuto vari target di emissione. La Germania, per esempio, ha concordato di tagliare il 21% (percentuale resa possibile dal collasso della maggior parte delle industrie dell'Est dopo la riunificazione) e il Regno Unito il 12.5%. Dall'altro lato, la Spagna ebbe il permesso di incrementare le sue emissioni del 15% e la Grecia del 25%. Dei 12 Stati membri, otto (inclusa la Repubblica Ceca) hanno un target dell'8%, sebbene l'Ungheria e la Polonia hanno un target del 6% e Cipro e Malta non ne hanno alcuno. La disciplina dell'Ue su questi target è stata — a voler essere buoni — quanto meno squilibrata.

Studi recenti dell'Agenzia europea per l'ambiente (Bea) suggerivano un taglio globale per l'Europa a 15 del 2% nel 2005, comparato sulla base dei dati del 1990. In realtà, l'Eea ha concluso che solo 3 Paesi su 15 avevano la possibilità di raggiungere i loro obiettivi utilizzando le misure esistenti: la Gran Bretagna, la Germania e la Svezia. Se, però, fosse stato autorizzato l'utilizzo programmato di stabilizzatori del carbone e i "meccanismi" di Kyoto, allora altri 5 Paesi avrebbero potuto raggiungere gli obiettivi, ossia il Belgio, la Finlandia, la Francia, il Lussemburgo e l'Olanda. I restanti 7, in ogni caso, non ci sarebbero riusciti e nemmeno l'Europa, nella sua interezza, avrebbe raggiunto l'obiettivo totale.

Nonostante gli scarsi risultati di molti Paesi europei nel raggiungere gli obiettivi di Kyoto, il Consiglio Ue ha deciso a marzo 2007 che l'Europa si sarebbe rigorosamente impegnata a realizzare almeno il 20% delle riduzioni di gas serra per il 2020. Se questo target verrà raggiunto è, naturalmente, lasciato a stime personali, ma ci si perdoni un po' di cinismo. Su questa stessa scia, il Consiglio europeo ha avallato un obiettivo anche più alto, del taglio del 30% entro il 2020, a condizione che gli altri Paesi in più avanzata via di sviluppo si adeguino alle stesse percentuali di riduzione e che quelli economicamente più avanzati contribuiscano adeguatamente, secondo le loro responsabilità e rispettive possibilità. Almeno, questo obiettivo così ambizioso riconosce tacitamente gli effetti potenzialmente avversi in termini di competitivita se si impongono tagli draconiani quando alcuni Paesi ad alta emissione, non ultimi Cina ed India, hanno intenzione di ignorare ogni appello per ridurre le loro emissioni.

Cina ed India, comprensibilmente, non vedono il motivo per cui dovrebbero frenare il loro sviluppo economico per amore di un'ipotesi non provata dai fatti. Come parte del processo di riduzione delle emissioni di Kyoto, l'Ue ha formulato l'Ets, ossia lo Schema per il Commercio delle emissioni, che e in sostanza un mercato per vendere "inquinamento" da CO2. L'Ets è uno schema di "cappello e commercio". Teoricamente, infatti, fissa un tetto alla quantità totale di CO2 che alcune industrie possono produrre e autorizza le varie aziende a "commerciare" le quote di emissione all'interno del mercato europeo. L'Ets è operativo da gennaio 2005; la prima fase si è conclusa nel 2007.

Lo schema potrebbe funzionare con successo se non fosse che la prima fase ha attirato tutta una serie di critiche. Il problema principale ha riguardato l'allocazione dei permessi agli Stati membri. Apparentemente, ai governi è stata lasciata libertà di scegliere i propri target, con poche restrizioni da parte della Commissione. Alcuni, inclusa la Gran Bretagna, hanno fissato target molto severi, mentre altri Stati, come la Germania, non hanno seguito lo stesso rigore. In più, c'è da dire che lo schema non ha affatto contribuito alla riduzione delle emissioni. La seconda fase, dal 2008 al 2012, naturalmente è già iniziata

La Commissione dichiara che sarà più intransigente e più giusta della prima, a causa della sua insistenza nell'aver posto un freno ad una sovra-allocazione di permessi. Ma c'è il rischio provato che la seconda fase possa essere altrettanto difettosa, anche se per motivi diversi. Queste ragioni si riferiscono al fatto che gli Stati membri non sono autorizzati ad "importare" crediti esterni a Kyoto dai Paesi in via di sviluppo al fine di raggiungere i loro target sulle emissioni. Il rischio è che alcuni di questi crediti non solo saranno scorretti, per non dire fraudolenti, ma potrebbero anche essere generati da progetti in Paesi in via di sviluppo che comunque sarebbero accaduti.

Concludendo, l'approccio di Kyoto di avere il controllo del cambiamento climatico, guidato da ambientalisti contrari allo sviluppo è così accuratamente scorretto che alla fine fallirà. I perdenti nell'esperimento politico mal consigliato di Kyoto saranno quegli Stati membri dell'Europa, e ogni Paese non Ue, che hanno accettato l'agenda di Kyoto e quindi adottato target per una dura e costosa riduzione delle emissioni. La Gran Bretagna è uno di questi Stati membri.

«Negli ultimi anni, ho assistito con sempre maggiore preoccupazione alle grida di “al lupo al lupo” lanciate dagli allarmisti del clima, che hanno spinto i governi europei a impegnarsi per ridurre drasticamente le emissioni di CO2, senza curarsi dei costi economici. (...) Ma considerando che il riscaldamento produce anche benefici oltre che costi, è tutt'altro che pacifico che il previsto incremento della temperatura, possa arrecare un danno alla popolazione mondiale. Invece, rallentare la crescita economica e ricadere nel protezionismo, passando a fonti energetiche a emissioni zero ma molto più costose, sarebbe estremamente oneroso e procurerebbe molti danni all'economia mondiale»
Nìgel Lawson - ex cancelliere dello Scacchiere Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2008