martedì 23 dicembre 2008

Confessioni di un ex massone


Nel suo libro “Sono stato massone” spiega che la Massoneria è stata determinante per l'introduzione dell'aborto libero in Francia nel 1974 ?


Maurice Caillet: "L'elezione di Valéry Giscard d'Estaing a Presidente della Repubblica Francese portò Jacques Chirac a diventare Primo Ministro, avendo questi come consigliere personale Jean-Pierre Prouteau, Gran Maestro del Grande Oriente di Francia, principale ramo massonico francese, di tendenza laicista. Al Ministero della Sanità fu collocata Simone Veil, giurista, ex deportata di Auschwitz, che aveva come consigliere il dottor Pierre Simon, Gran Maestro della Grande Loggia di Francia, con il quale io mantenevo una corrispondenza. I politici erano ben circondati da quelli che chiamavamo i nostri “Fratelli tre punti”, e il disegno di legge sull'aborto venne elaborato rapidamente. Adottata dal Consiglio dei Ministri nel mese di novembre, la legge Veil venne votata a dicembre. I deputati e i senatori massoni di destra e di sinistra votarono all'unanimità!"


lunedì 22 dicembre 2008

Killing of Non-Muslims is Legitimate

Buon natale....ci vediamo al fronte....

domenica 21 dicembre 2008

La moschea


di Massimo Introvigne


Nuove moschee in Italia sì o no? Tornano gli equivoci. Dicendo che in Italia vi sono oltre 300 moschee, tecnicamente si sbaglia. Non si tratta di moschee (masjid o jami), ma di “sale di preghiera” (musalla). Da noi le moschee si contano su una mano. Politici di sinistra, studiosi buonisti e anche qualche ecclesiastico cattolico bene intenzionato affermano che i musulmani hanno diritto a luoghi di culto propri. Cioè di sale di preghiera, di cui i musulmani italiani fruiscono con relativa abbondanza. La moschea, invece, non è un semplice luogo di culto.


Come ha scritto il gesuita Khalil Samir su La Civiltà Cattolica, «la moschea, in quanto centro socio-politico-culturale musulmano, non può entrare nella categoria dei “luoghi di culto”, non essendo esclusivamente un luogo di preghiera ». È infatti un centro dove la comunità si raduna per questioni culturali, sociali e politiche, oltre che religiose. Vi si trova normalmente, oltre a una scuola islamica, un tribunale coranico che – come è noto – non tratta solo questioni di fede. Tutta l’azione dell’islam politico parte dalla moschea, e ogni nuova costruzione è percepita come “conquista” e “cedimento” dell’Occidente, tanto più che secondo il diritto musulmano il territorio dove essa sorge acquisisce extraterritorialità facendosi islamico per sempre.


La discussione dovrebbe quindi allargarsi a una politica dell’islam, la quale dovrebbe anzitutto identificare chi vuole usare le moschee come spazi per diffondere ideologie ultrafondamentaliste incompatibili con le nostre tradizioni e con la Costituzione, per non parlare di chi – e non manca – usa le moschee come depositi di armi e centri di reclutamento per il jihad. A costoro gli spazi dovrebbero essere ristretti. Per gli altri – disponibili a riconoscere i valori e la Costituzione della società che li ospita – andrebbe esaminato se la moschea risponda a un bisogno reale o solo simbolico, magari ispirato da “cattivi maestri”. Valutando i casi singoli. Oggi è infatti meglio sbagliare per eccesso di prudenza.

sabato 20 dicembre 2008

Dinitas


"Zurigo sta diventando sempre di più una meta per i malati terminali che vogliono praticare il suicidio assistito. Per un malato terminale il viaggio di sola andata a Zurigo si conclude alla Dignitas, un’associazione svizzera, che ha sede a Forch (Zurigo), fondata nel 1998 da Luwig Minelli, che si offre di accompagnare i pazienti verso «un’estrema uscita di emergenza». La ricetta medica somministrata al malato è una pozione amara a base di pentobarbital sciolta in un bicchiere d’acqua e addolcita con qualche cucchiaino di zucchero. Ingerito il cocktail letale, il malato si addormenta, dopo due o tre minuti cade in un coma profondo, poi si ferma la respirazione e il paziente muore. La condizione posta è che l’aspirante suicida porti il bicchiere alla bocca da sé, davanti a testimoni, altrimenti l’associazione può essere perseguita penalmente. Suicidarsi con Dignitas, però, costa caro, in media 3.500 euro (costo che può variare in base al reddito) oltre al contributo d’ingresso di circa 72 euro e una quota annuale di 36 euro. «Il nostro scopo – racconta Ludwig Minelli – è quello di prevenire il suicidio. Ma se per il paziente affetto da una malattia terminale o da un’invalidità dolorosa e insopportabile, la morte rappresenta l’unica soluzione, noi lo aiutiamo con il suicidio assistito». Il servizio non è rivolto solo ai cittadini elvetici, ma anche a quelli di paesi in cui queste tecniche non sono permesse."


Se davvero Beppino Englaro desiderava adempiere (con tenacia e ostinazione) la volontà della figlia, (replica) compiere un atto di libertà, salvarla da quella non-morte, mi riesce difficile pensare che non fosse a conoscenza della clinica svizzera Dignitas la quale "offre" dal 1998 (dunque 6 anni più tardi del tragico incidente)"servizi" di morte assistita, indipendentemente dalla nazionalità e in totale privacy.

Il fatto è che pur non desiderandolo il padre di Eluana è stato strumentalizzato, il suo dolore e il suo amore per la figlia reso pubblico, merce di dibattito, inserito in una cultura necrofobica che domina nell'occidente e che per forze storiche in Italia trova, per fortuna, battaglia.

mercoledì 17 dicembre 2008

Vampiri




"Il successo mondiale di Twilight, sulla scia di Buffy, ha ragioni più profonde. Come mostra il sociologo Douglas Cowan nel suo recente Sacred Terror, il vampiro è una delle poche finestre attraverso le quali i giovani oggi si affacciano sulla problematica della morte e dell'immortalità, che è intrinsecamente religiosa. Lo sa bene Stephenie Meyer, l'autrice di Twilight, che è una devota fedele della Chiesa Mormone e ha cosparso il suo testo di allusioni religiose."

venerdì 21 novembre 2008

Il Metodo Massonico


Leggo dal manuale massonico per eccellenza The Builders del reverendo Joseph Fort Newton, il volume più influente sulla mentalità dei massoni americani nel nostro secolo:

"Poichè l'anima umana è affine a Dio, ed è dotata di poteri a cui nessuno può fissare un limite, è in fatto, e deve essere in diritto, libera. Pertanto, secondo la logica della sua filosofia non meno che secondo l'ispirazione della sua fede, la massoneria è stata spinta a presentare le sue storiche domande per la libertà di coscienza, per la libertà dell'intelletto e per il diritto di tutti gli uomini di ergersi senza timore e senza paura, uguali tutti di fronte a Dio e alla legge, ognuno pronto a rispettare i diritti dei suoi simili"


Non possiamo non dirci massoni......

lunedì 17 novembre 2008

Caso Englaro. I giudici hanno sbagliato già tanti anni fa

Di seguito il testo di una lettera inviata al quotidiano Avvenire del 16 Novembre 2008


Caro Direttore,

secondo la Costituzione italiana la sovranità appartiene al popolo. Lo scorso 13 aprile il popolo ha scelto una maggioranza di governo. Nel programma della maggioranza di governo compariva la frase “esclusione di ogni ipotesi di leggi che permettano o comunque favoriscano pratiche mediche assimilabili all’eutanasia”. Nonostante questa affermazione perentoria, a breve, salvo miracoli, un medico sfilerà un sondino e avremo il primo caso di eutanasia in Italia.

Evidentemente la sovranità non appartiene al popolo. Forse appartiene ai giudici; forse appartiene a organizzazioni potenti che agiscono sotto traccia; forse appartiene a quei giornali e TV che ci forniscono sondaggi taroccati. Certamente non al popolo.

Di chi è la colpa? Dei giudici? Sì, di alcuni giudici. Ma non solo i giudici che hanno agito in questi ultimi mesi: bisogna risalire più indietro. Quando, tanti anni fa, il signor Englaro chiese per la prima volta che venisse interrotta l’alimentazione e l’idratazione della figlia Eluana, il giudice doveva rispondere: “Lei signor Englaro è il padre, ma non potrà più essere il tutore: ha chiesto infatti per Eluana un’azione contraria al diritto naturale e contraria alla legislazione italiana”. La tutela di Eluana in quel momento doveva passare ad altra persona.

Invece il signor Englaro è rimasto il tutore, e noi, l’opinione pubblica, abbiamo dato per scontato che lui rimanesse il tutore. E’ accaduto perché abbiamo il cuore delicato, più incline al sentimentalismo che al ragionamento: ci sembrava di fare uno sgarbo alle sofferenze del signor Englaro dicendo che non poteva più essere il tutore. Non ci siamo resi conto che facevamo uno sgarbo ben più grave a sua figlia, che ora morirà di fame e di sete; e uno sgarbo ben più grave anche a lui che, volente o nolente, porterà a vita il peso dell’azione fatta su sua figlia e su tutti quelli che, da questo “innesco”, subiranno prima o poi la stessa sorte.

Il signor Englaro non può essere il tutore di Eluana. Visto che non c’è più tempo per cambiare l’opinione pubblica, occorre fare appello a un giudice: quale è il giudice competente per avviare un procedimento di rimozione del ruolo di tutore al signor Englaro? Se c’è, agisca presto.

venerdì 14 novembre 2008

La vittoria di Obama, i diritti civili e la religione


Riporto una parte dell'articolo di Massimo Introvigne, analisi completa di un fenomeno complesso come Obama, la cui elezione è il risultato storico di un processo lungo e dolorosp per l'America, "iniziato con la schiavitù e la lotta delle Chiese per la sua abolizione, e ha un significato insieme epico e di riconciliazione nazionale che trascende ogni altra considerazione, travolgendo anche il primato dei valori non negoziabili invano ricordato dalle autorità religiose" . Non è lecito dunque approrpiarsi di questo traguardo sociale come di una vittoria di istanze culturali (etiche, morali ed economiche) radicali progressiste "mature", (di una maturità illuministicamente intesa), ne è lecito da un punto di vista strettamente politico considerare la vittoria di Obama come il segnale di una revanche democratica internazionale ed italiana, Obama è l'America.


"......Mi spiego. Fioccano commenti (e si è cominciato a urne aperte, con editoriali su tutti i grandi giornali) sul fatto che per la prima volta il voto di quel quaranta per cento di americani che si dichiara religioso e praticante non è andato prevalentemente ai repubblicani, ma ai democratici. I primi sondaggi mostrano che – se tra i protestanti evangelical, cioè conservatori, ha vinto McCain (ma non con i margini bulgari che ebbe Bush nel 2004) – tra gli ebrei e tra i cattolici (praticanti) ha prevalso Obama. Le spiegazioni di questo evento decisivo per le elezioni sono sostanzialmente quattro. La prima è che le persone religiose non votano tutte e solo in base alla religione, e che le crisi economiche gravissime portano sempre a votare contro i partiti di governo, considerati in prima battuta – non importa se spesso a torto – responsabili delle crisi (“Piove, governo ladro”). La seconda è che il battista McCain, come la stampa ha spesso notato, benché schierato in modo gradito alla maggioranza delle persone religiose sui valori non negoziabili, non viene dal mondo dell’attivismo religioso e ha qualche imbarazzo a parlare di religione in pubblico. Al contrario il riformato (calvinista) Obama si presenta come l’erede di una tradizione afro-americana dove i politici – buoni, cattivi o pessimi – sono sempre venuti dal mondo delle comunità religiose, dal reverendo Martin Luther King, Jr. (1929-1968) al reverendo Jesse Jackson, e in tutti i suoi discorsi è costante il riferimento appassionato alla fede e alla preghiera.


In terzo luogo – come ha sottolineato un grande esperto di cose evangeliche, Mark Silk, al congresso appena concluso a Chicago dell’American Academy of Religion – i protestanti evangelical, componente maggioritaria della coalizione religiosa determinante per i passati successi repubblicani, hanno sbagliato nell’opporsi alla candidatura alla vice-presidenza dell’ex-governatore del Massachusetts Mitt Romney lasciando intendere piuttosto chiaramente di non volere un candidato di fede religiosa mormone (meno chiaramente – ma chi doveva capire ha capito – si sono opposti anche alla scelta come vice-presidente di Joe Lieberman, di provenienza democratica ma schierato con McCain, perché si tratta di un ebreo ortodosso e gli evangelical non volevano un candidato non cristiano, o più precisamente non protestante). A prescindere da ogni altra considerazione, questo ha trasmesso ai soci di minoranza della famosa coalizione dei quattro decisiva per le vittorie di Bush – protestanti evangelical,cattolici fedeli al Papa, ebrei ortodossi e mormoni (questi ultimi molto importanti sul piano elettorale perché concentrati in quattro o cinque Stati – non solo nello Utah – dove fanno la differenza) – il messaggio secondo cui per gli evangelical la coalizione funziona se gli altri portano i voti ma il candidato è comunque protestante. Dal punto di vista dei valori non negoziabili la pentecostale Sarah Palin era peraltro la migliore delle candidate possibili: ma questi antefatti spiegano perché i non evangelical non l’abbiano forse difesa quanto meritava di fronte a un’autentica aggressione della stampa liberal, che ha mostrato ai (numerosissimi) pentecostali statunitensi come la tolleranza verso forme religiose con un culto entusiastico e un riferimento insistito ai demoni e alle profezie sia un traguardo ancora lontano per i grandi media americani imbevuti di pregiudizi laicisti e razionalisti.


E tuttavia il quarto motivo per cui il mondo di chi va nelle chiese e nelle sinagoghe (per non parlare delle moschee, dove i parenti musulmani di Obama hanno avuto il loro ruolo) ha messo tra parentesi i valori non negoziabili e ha votato per il senatore di Chicago – a mio avviso, non meno decisivo del primo, quello legato alla crisi economica – è, molto semplicemente, che Barack è un afro-americano. Con eccezioni marginali e quasi irrilevanti, le Chiese e comunità religiose americane nel XX secolo hanno considerato una loro battaglia cruciale quella per i diritti civili della popolazione di colore degli Stati Uniti (dopo essere state in maggioranza nel XIX secolo contro la schiavitù – anche se non necessariamente a favore della Guerra Civile né della successiva criminalizzazione del Sud). I non statunitensi spesso non si rendono conto di quanto questa battaglia abbia formato gli americani che erano giovani negli anni 1960, in particolare quelli religiosi, un numero sorprendente dei quali è andato in Alabama e altrove, prendendo anche qualche manganellata, per manifestare affinché gli afro-americani potessero salire sugli stessi autobus dei bianchi e votare senza essere intimiditi. Per tutti costoro (per esempio per molti amici del sottoscritto, che nel 2004 avevano votato per Bush ma nel 2008 hanno scelto Obama) eleggere un afro-americano alla presidenza negli Stati Uniti chiude un lungo ciclo della storia del loro Paese, iniziato con la schiavitù e la lotta delle Chiese per la sua abolizione, e ha un significato insieme epico e di riconciliazione nazionale che trascende ogni altra considerazione, travolgendo anche il primato dei valori non negoziabili invano ricordato dalle autorità religiose.


A questa considerazione si rivolgono di solito due obiezioni. La prima – illustrata per esempio in Italia da un articolo di Fiamma Nirenstein su il Giornale – è che la sinistra americana (e quella internazionale) ha speculato in modo strumentale sull’etnicità di Obama, mentre non si è emozionata per la nomina a segretario di Stato prima di Colin Powell e poi di Condoleeza Rice, afro-americani anche loro. La Rice in particolare, che sarà ricordata checché se ne dica come brillante artefice di un modo nuovo di fare politica estera, è stata presa a pesci in faccia dalla sinistra nonostante fosse afro-americana. Tutto questo è vero: e tuttavia, come notava già nel XIX secolo Alexis de Tocqueville (1805-1859), gli Stati Uniti sono una monarchia che elegge il suo re ogni quattro anni. C’è una mistica della presidenza assai simile alla mistica delle monarchie. Non c’è, con tutto il rispetto, una mistica del segretario di Stato, così che solo l’elezione di un afro-americano alla presidenza (non la sua nomina a una carica ministeriale, per quanto prestigiosa) poteva essere percepita come un evento epocale e come il coronamento di due secoli di battaglie che hanno avuto anche, se non soprattutto, una dimensione religiosa.


La seconda obiezione è che Obama non è davvero un afro-americano. I suoi antenati vivevano in Kenya e non hanno conosciuto l’esperienza della schiavitù che connota in modo decisivo e profondo l’esperienza dei veri afro-americani. L’obiezione ha avuto un peso nelle prime fasi della campagna di Obama: ma alla fine ha prevalso la sua auto-identificazione (che non nasce con le elezioni, ma risale agli albori della sua carriera professionale e politica a Chicago) con la comunità afro-americana e il fatto che, comunque la si metta, non si tratta di un bianco anglo-sassone.


Nella storia culturale e sociale degli Stati Uniti – anche qualora, come i più pessimisti prevedono, la sua presidenza si riveli debole sul piano economico e della politica estera, quasi un remake dei disastri di Jimmy Carter, e mettendo in conto gli inevitabili scontri con le Chiese in materia di principi non negoziabili – la chiusura dei conti e la riconciliazione nazionale in materia di diritti civili rimarranno comunque un frutto dell’elezione di Obama. Chiuso finalmente questo antico dossier, le Chiese e comunità religiose potranno tornare alle loro priorità. Sui temi dell’aborto e della famiglia (anche se Obama si dichiara contrario al matrimonio omosessuale – ma non così il suo partito) la strada da oggi è più in salita. Ma questo non significa che non debba essere percorsa con coraggio e determinazione. L’elettorato religioso statunitense non è certamente sparito: le voci di una sua morte sono, per dire il meno, premature, anche se il suo modo di esprimersi nel 2008 è stato influenzato da una serie di fattori probabilmente irripetibili.

martedì 28 ottobre 2008

IL VICOLO CIECO DEI RIFORMISTI PER FINTA


Riporto un articolo di Gianni Baget Bozzo che trovo davvero esaustivo nel chiarire "i movimenti" politci di questi giorni :


«È risorto»: ha intitolato Il Riformista il commento alla manifestazione romana del Pd.....

Veltroni ha definito la manifestazione come l'atto di una «piazza riformista», ma i riformisti ebbero le piazze solo con Craxi e a Milano e furono allora riunioni a favore del governo e non contro di esso. La «piazza riformista» è, per essenza, una piazza governativa.

Ma il testo più commovente è quello pubblicato nel consueto messaggio domenicale di Eugenio Scalfari. Scalfari dichiara la sua passione disarmata, quasi infantile, che lo spinge a visitare la piazza prima della manifestazione come uno spazio sacro, pregando da laico che il popolo la riempia. E poi gridando la sua gioia quando la televisione gli restituisce una piazza piena: non importa di quanti, basta l’immagine del video. Ma in genere tutti si sono compiaciuti perché la piazza aveva un volto, perché il pubblico, assai inferiore al milione, e non di meno era là. Il timore comune era proprio che la lunga storia comunista si fosse dissolta, che il sacro soggetto con cui si è identificata la cultura politica italiana finisse senza oggetto: e che Berlusconi e Bossi fossero il Paese reale che prendeva vistosamente le distanze dal Paese intellettuale, dalla stampa e dalla letteratura politica. Che una forza politica che controlla regioni, province e comuni di tanta parte d’Italia e ha a disposizione la Cgil non potesse riempire il Circo Massimo era impossibile. Ma la piazza del 25 ottobre non è la piazza di Cofferati, quando egli schierò contro il governo Berlusconi la forza del sindacato allora potente e motivato. Oggi Cofferati non potrebbe più produrre quella marcia su Roma e Nanni Moretti non potrebbe più animare i girotondi. Oggi Cofferati, rimosso dal partito, lascia la poltrona di sindaco di Bologna e la Cgil è un’organizzazione emarginata dagli altri sindacati.Ma la piazza di Veltroni non era riformista e non lo è il Partito democratico. La grande crisi aperta dalle banche americane che fa degli Stati e dei governi i decisori dell’economia, dovrebbe interessare un partito riformista, che avrebbe chiesto l’unità nazionale e interrotto ogni polemica con il governo nell’interesse del Paese. Come hanno fatto, a suo tempo, i laburisti inglesi, socialdemocratici tedeschi e i socialisti spagnoli. Ma il Pd non è in grado di fare questo e non lo ha fatto. D’Alema e Bersani sono rimasti inclusi nella linea di Veltroni, mentre ad essa ancora si oppone Parisi e il gruppo dei costituzionalisti. I rifondaroli benedicono la piazza e Liberazione annuncia con reverenza che «parla Veltroni». La manifestazione è stata fatta contro il governo come illegittimo e non democratico e Parisi e Di Pietro vi hanno raccolto firme per il referendum sul lodo Alfano. L’alternativa riformista è stata cancellata dal tempo nel Pds, sin dalla sua nascita alla Bolognina, quando Occhetto respinse la linea socialdemocratica offerta da Craxi e preferì una linea radicale che manteneva la rivendicazione del suo monopolio a sinistra propria del partito comunista.


Ci si meraviglia che Berlusconi sia così duro verso il Pd e verso le manifestazioni scolastiche da esso appoggiate e promosse. Egli sa ormai da decenni che D’Alema è sconfitto e che la linea di Veltroni, il partito radicale che mantiene la differenza comunista, è vincitrice. Il Pd rimane antiberlusconiano per principio e quindi può giustificarsi solo con una lotta frontale contro il governo. Su questo Pd, che non è più né riformista né rivoluzionario muove la pressione sia della Lega che di Di Pietro, cioè di una nuova destra che porrebbe problemi alla democrazia perché costruita solo sulla protesta, mentre il Paese chiede un governo. Speriamo che Berlusconi se la cavi e cavi il Paese dalle tenebre

giovedì 16 ottobre 2008

LEHMAN BROTHERS EX LOBBY DEL CLIMA e il guru Al Gore


Riporto quanto letto su internet in una delle mie navigate...


"Lehman Brothers era davvero una banca strana: solo l’anno scorso aveva pubblicato un voluminoso e influente rapporto che prevedeva l’evoluzione del clima da qui al 2100, ma non era stata capace di prevedere che sarebbe fallita nel giro di un anno.


Cosa ancora più curiosa è che molto probabilmente non si tratta di due episodi scollegati. Lehman Brothers era infatti molto coinvolta nel business del Carbon Trading (certificati "verdi" legati alle "carbon emission) voluto dal Protocollo di Kyoto, e strettamente legata alla “lobby del clima”: consulente scientifico di Lehman Brothers era James Hansen, direttore alla NASA dell’Istituto Goddard per gli Studi Spaziali, considerato anche il “padre” dell’effetto serra ovvero della traduzione in politiche radicali delle incerte teorie scientifiche sul riscaldamento globale.


Non solo, Lehman Brothers era anche la banca di riferimento della società creata da Al Gore nel 2004, la Generation Investment Management (GIM), che si occupa appunto di “commerciare” il carbonio, un’attività questa che potremmo anche meglio definire come speculazione finanziaria sull’aria calda. I legami con Al Gore non finiscono qui: l’Alliance for Climate Protection, di cui il Nobel per la Pace guida il Consiglio d’Amministrazione, ha come Managing Director quel Theodore Roosevelt IV che figura anche come Managing Director della Lehman Brothers, con un incarico speciale nel rapporto con i clienti più importanti della banca. Theodore Roosevelt IV, tra l’altro, non è esattamente un neofita dell’ecologismo. Al contrario egli è noto come un “conservazionista” militante, vice-segretario della Wilderness Society nonché amministratore del Museo Americano di Storia Naturale, del World Resources Institute, dell’Institute for Envirnoment and Natural Resources all’Università del Wyoming, e della Trout Unlimited, società conservazionista che si occupa di proteggere i pesci d’acqua dolce. Per finire Theodore Roosevelt IV è anche il segretario del Pew Center for Global Climate Change, un centro studi che promuove una nuova economia basata sulla teoria dei cambiamenti climatici.


Non sorprende perciò che Lehman Brothers negli ultimi anni abbia investito notevolmente nel business del Carbon Trading e che abbia prodotto un rapporto in due parti (febbraio e settembre 2007)dall’eloquente titolo “The Business of Climate Change”, che vuole convincere gli investitori a sostenere l’economia della “de-carbonizzazione” dimostrando gli alti profitti attesi grazie anche alle ingenti sovvenzioni pubbliche che il sistema del Protocollo di Kyoto genera. Va ricordato anche che quel rapporto ha avuto grande eco tra i leader politici, sui mass media e, ovviamente, dai Verdi è stato portato come prova schiacciante della giustezza della loro posizione: “Se lo dice anche Lehman Brothers!”… Quel rapporto è stato adottato, ad esempio, dai governi di Spagna ed Argentina come base per le politiche climatiche, oltre a essere stato osannato negli editoriali di autorevoli giornali di mezzo mondo. "
A proposito dello stesso personaggio e dell'affermazione della giustizia anche in questo mondo, non sarà però inutile ricordare che nel recente, clamoroso fallimento della Lehman Bros, la sua corresponsabilità è evidente come un cerchio giallo su un elefante; infatti è stato il nostro premio Nobel che ha convinto la banca d’affari ad effettuare poderosi investimenti nel commercio dei crediti di carbonio


Aggiungo..chi semina vento raccoglie tempesta

LO SVILUPPO FA BENE, LEGAMBIENTE LO DICE MA LO NEGA


Tratto da un articolo di di Fabrizio Proietti


In testa alla classifica delle città più "ecosostenibili" e attente ai problemi ambientali in genere, pubblicata dal Sole 24 Ore troviamo tutte città del centro-nord, mentre in fondo troviamo le città del sud. La ragione è evidente: contrariamente a quanto sostengono gli ecologisti, l’attenzione per l’ambiente migliora laddove c’è lo sviluppo.

Quando parliamo di sviluppo non parliamo solo di pil, ma di una serie di condizioni sociali e infrastrutture che rendono più agevole la vita ai cittadini. Scuole che educano, ospedali che curano, servizi sociali che rispondono ai bisogni delle famiglie, strade e ferrovie per collegare, opportunità di lavoro: tutto questo fa parte di una città e di un paese sviluppato, oltre ovviamente al pil.

Il fatto è che in tutto il mondo gli indicatori ambientali - la qualità dell’aria, dell’acqua, la salute delle foreste e così via – sono buoni e in miglioramento nei Paesi industrializzati e cattivi o in via di peggioramento nei paesi poveri.

Cito, a mo’ di esempio, un rapporto del Centro Internazionale per la fertilità dei suoli e lo sviluppo agricolo (Ifdc) il quale afferma che dal 1980 al 2004 l’Africa subsahariana ha visto degradarsi rapidamente il 75% dei terreni agricoli. Motivo: un eccessivo sfruttamento del suolo dovuto a pratiche agricole inadeguate, ovvero sistemi primitivi di agricoltura.

domenica 5 ottobre 2008

CRISI MUTUI, ECCO DA DOVE NASCE


Mentre impazza la crisi dei mercati finanziari, che mette a rischio lo sviluppo mondiale, e si moltiplicano le analisi su radici e prospettive, ci sembra utile riproporre un articolo scritto nel settembre 1999 sul New York Times, in cui si sottolinea la pericolosità di una decisione del presidente Clinton che forzava Fannie Mae (una delle banche protagoniste dell'attuale crac) ad aprire i cordoni della borsa, concedendo prestiti senza garanzie adeguate. Nell'articolo si prevede ciò che sta accadendo in queste settimane. Una lettura più utile di tante analisi.


Dal New York Times, 30 settembre 1999


FANNIE MAE FACILITA IL CREDITO PER FACILITARE I PRESTITI SU MUTUO


Steven A. Holmes


Con una mossa che punta ad aumentare la percentuale di proprietari di case fra le minoranze e i ceti a basso reddito, la Fannie Mae Corporation sta allentando le condizioni per i mutui che acquisterà dalle banche ed altri prestatori di denaro. Questo gesto, che comincerà come programma pilota destinato a coinvolgere 24 banche su 15 mercati diversi -- compresa la regione metropolitana di New York -- mira ad incoraggiare queste banche a concedere mutui per la casa a persone le cui garanzie normalmente non sono sufficienti per ottenere prestiti convenzionali. I funzionari di Fannie Mae dicono che sperano di farne un programma nazionale entro la primavera prossima.


Fannie Mae, il più grosso sottoscrittore nazionale di mutui per la casa, ha subito pressioni crescenti dal governo Clinton per allargare i cordoni dei mutui per favorire i ceti a basso e medio reddito, e ha avuto pressioni anche dai suoi azionisti perché mantenesse la crescita fenomenale dei suoi profitti. Inoltre, premono su Fannie Mae anche banche ed altri istituti finanziari interessati ad essere aiutati a concedere un maggior numero di prestiti ai soggetti cosiddetti subprime. A questi richiedenti, i cui redditi, status creditizio e risparmi non sono sufficienti per ottenere prestiti convenzionali, fanno credito soltanto i finanziatori che impongono tassi d'interesse molto più alti -- dai tre ai quattro punti di più dei prestiti convenzionali.


"Negli anni Novanta Fannie Mae ha aumentato le possibilità di acquistare la prima casa per milioni di famiglie," ha detto Franklin D. Raines, direttore e amministratore delegato di Fannie Mae. ''Ciononostante ci sono ancora troppi soggetti le cui caratteristiche sono appena un gradino sotto quanto stabilito dalle nostre condizioni, che sono stati relegati a pagare tassi di interesse notevolmente superiori sul mercato cosiddetto subprime.'' I dati demografici su questi soggetti sono vaghi. Ma da almeno una ricerca si ricava che il 18 per cento dei prestiti sul mercato subprime è andato a persone di colore, rispetto al 5 per cento dei prestiti sul mercato convenzionale.


Entrando, seppure sperimentalmente, in questa nuova area del credito, Fannie Mae sta assumendosi notevoli rischi in più, che potranno non produrre difficoltà in un periodo florido. Ma questa azienda, sussidiata dal governo, potrebbe trovarsi nei guai se si verifica un periodo di stallo economico, e richiedere un salvataggio da parte dello Stato simile a quello che è stato necessario per le casse di risparmio negli anni Ottanta.[....]


Con il programma pilota di Fannie Mae, ai consumatori ammessi saranno concessi mutui a un tasso di interesse superiore di un punto rispetto a quello dei mutui convenzionali trentennali inferiori a $240,000 -- che attualmente ottiene in media il 7,76 per cento. Se il soggetto sarà puntuale nel pagare le rate mensili puntualmente per due anni di seguito, il tasso scenderà di un punto. Fannie Mae non presta denaro direttamente ai consumatori ma acquista i prestiti che le banche fanno sul mercato cosiddetto secondario. Allargando il tipo di mutui che è disposta a comprare, Fannie Mae spera di spronare le banche ad aumentare i mutui per le persone con un profilo creditizio non proprio eccezionale. I funzionari di Fannie Mae insistono che i nuovi mutui saranno estesi a tutti i soggetti che hanno il potenziale per richiederli. Ma aggiungono che questa mossa mira in parte ad aumentare il numero di proprietari di case fra le minoranze e i ceti a basso reddito che tendono a non raggiungere le caratteristiche finanziarie dei bianchi non-ispanici.


Infatti, durante il boom economico degli anni Novanta è esploso il numero di proprietari di case fra le minoranze. Secondo il Joint Center for Housing Studies dell'Università di Harvard, dal 1993 al 1998 il numero di mutui concessi ai richiedenti ispanici è schizzato in su dell'87,2 per cento. Nello stesso periodo il numero di afro-americani che hanno ottenuto il mutuo per la casa è aumentato del 71,9 per cento e il numero di amer-asiatici del 46,3 per cento. Al confronto, il numero di bianchi non-ispanici che hanno ricevuto prestiti per la casa è aumentato del 31,2 per cento. Nonostante questi guadagni, la percentuale dei proprietari di case fra le minoranze continua ad essere inferiore a quella dei bianchi non-ispanici, in parte perche i neri e gli ispanici in particolare tendono ad offrire minori garanzie per il credito.


In luglio, il Dipartimento per la Casa e lo sviluppo urbanistico ha proposto di arrivare a un portafoglio per Fannie Mae e Freddie Mac costituito per il 50 per cento da crediti verso soggetti a reddito medio e basso. L'anno scorso, il 44 per cento dei prestiti acquistati da Fannie Mae venivano da questi gruppi. Il cambiamento nella politica viene nello stesso momento in cui al Dipartimento si sta indagando su delle accuse di discriminazione razziale rivolte ai sistemi di sottoscrizione automatizzati usati da Fannie Mae e Freddie Mac per determinare la solvibilità di chi fa domanda di credito.

(traduzione Alessandra Nucci)

mercoledì 17 settembre 2008

Morte: quando? Parte 2


Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l'intervento della dottoressa Chiara Mantovani, Presidente dell'Associazione Medici Cattolici Italiani (AMCI) di Ferrara e Presidente di Scienza & Vita di Ferrara.


Leggo nell’articolo di Lucetta Scaraffia cui facevo riferimento all’inizio:


Come ha fatto notare Peter Singer, che si muove su posizioni opposte a quelle cattoliche: "Se i teologi cattolici possono accettare questa posizione in caso di morte cerebrale, dovrebbero essere in grado di accettarla anche in caso di anencefalie".


Mi sia consentito replicare sommessamente a Singer che il problema non è “cattolico”: i teologi cattolici esprimono posizioni coerenti con la teologia partendo dai dati di ragione forniti da altre discipline. E ciò che stride è proprio che in realtà il comportamento consigliato dai teologi morali di fede cattolica è coerente con le coordinate espresse finora: il paziente anencefalico dovrebbe essere (e in Italia lo è!) monitorato per tutta quella parte di encefalo che ha e solo al raggiungimento del silenzio elettrico è dichiarato morto! Si applica proprio in questo caso-limite tutta la prudenza invocata prima: se bastasse solo un EEG, visto che non c’è niente da controllare (il bimbo anencefalico ha solo piccole parti di cervello, spesso non la corteccia) sarebbe dichiarato morto subito. Invece si va oltre, si aspetta che ogni più piccolo segnale sia cessato, e si aspetta che sia cessato per un tempo doppio rispetto all’adulto perché conosciamo la maggiore resistenza del tessuto nervoso del neonato all’anossia.


Se si ragionasse nei termini di “assenza di coscienza” (senza corteccia cerebrale non c’è coscienza) si darebbe ragione al signor Singer, il quale, dal canto suo, non ha neppure bisogno dell’EEG per dichiarare un essere umano una non-persona: per lui fino a quando non si hanno capacità di parola e relazione, non si ha dignità umana! Se si ragionasse nei termini di vita degna-non degna, si potrebbero accelerare i tempi di morte di pazienti senza corteccia funzionante (senza capacità di relazione), ma con il cuore che batte da solo e con i polmoni che scambiano anidride carbonica con ossigeno.


Invece la testardaggine tutta cristiana di appoggiarsi al dato reale ci protegge fino in fondo. Quando sussiste segno di vita, è vita. Bella, brutta, gradevole o puzzolente, è vita.


Ma nell’articolo uscito il 3 settembre, si riportava anche un’altra affermazione francamente sorprendente:


Facendo il punto sulla questione, Becchi scrive che “l’errore, sempre più evidente, è stato quello di aver voluto risolvere un problema etico-giuridico con una presunta definizione scientifica”, mentre il nodo dei trapianti “non si risolve con una definizione medico-scientifica della morte”, ma attraverso l’elaborazione di “criteri eticamente e giuridicamente sostenibili e condivisibili”.


Forse fraintendo, me lo auguro, ma qui c’è un invito a prescindere dai fatti. Che cosa può appoggiare legittimamente il giudizio se non la conoscenza del fatto, nella misura che è possibile alla ragione e all’esperienza? Quando la morte si accertava con lo specchietto (se si appannava, si era vivi; se no, si era sepolti. E per giunta senza aspettare troppo tempo, per via della puzza) si commettevano delitti contro l’etica o contro la buona pratica clinica? E poi la verità su cui appoggiare il giudizio dovrebbe scaturire dall’accordo su ciò che è giusto? Mettiamo ai voti i criteri di accertamento della morte?


Il problema etico è di (apparente) semplice soluzione: si dispone con rispetto del cadavere, si tratta con rispetto il vivente. Mi pare superfluo soffermarmi sulla differenza tra “disporre” e “trattare”.


La natura di cosa, ancorché nobile, del corpo morto attiene alla sostanza cadaverica; la natura di persona del corpo vivente attiene alla sostanza di essere. L’una e l’altra vedono nei loro confronti applicata l’etica quando ricevono un trattamento adeguato alla rispettiva natura.


Il problema giuridico è più complesso perché si tratta di tradurre in pratica norme valide per ogni situazione. E in un panorama etico e sociale diviso, anzi, frammentato, come il moderno, questa è operazione sempre più complessa. Ma se anche la legislazione si allontana dalla concretezza del dato conosciuto e onestamente riconosciuto, e se cade nel tranello della concertazione, allora non so immaginare quale possibilità possa avere l’etica di trovare un fondamento comune.

Morte: quando? Parte 1

Lucetta Scaraffia, dalle pagine dell’Osservatore Romano, riapre una questione che periodicamente solleva discussioni e perplessità: la dichiarazione di morte di una persona umana.

L’argomento è terribile ed affascinante: conosco persone che, tanti anni fa, si iscrissero ad una associazione di donatori d’organo spinte dal solo terrore di essere sepolti vivi. Meglio star certi di finire nella cassa senza rischi di svegliarsi. Il che non è propriamente una dimostrazione di fiducia nella perizia medica, ma ha una sua giustificazione emotiva.

Non sarà forse inutile ripetere alcune piccole considerazioni, tenendo presente sia gli aspetti tecnico-scientifici che quelli etici; non affrontando quelli medico-legali, per il solo motivo che essi sono regolati dalla legislazione, sulla quale attualmente non c’è modo di agire: questo è dunque un aspetto ininfluente non sulla prassi, ma certamente sulla comprensione del problema.

Però resta vero, e anzi assolutamente notabile, che la legislazione si avvale, per esprimersi, di basi di competenza che le sono estranee: ecco il ruolo della scienza medica supportata dal corredo tecnico sufficiente a fornire basi oggettive. Così come è doveroso rimarcare che la nostra legislazione prevede i protocolli più aderenti alle notizie scientifiche certe di cui disponiamo, diversamente da quanto accade in altri Stati europei o nordamericani.

E diciamo subito una verità tanto sgradevole quanto evidente: prima o poi bisogna consegnare il corpo morto ad un seppellitore. Oggi anche ad un inceneritore, a causa del poco spazio disponibile per i cimiteri nelle aree urbane e ancor più il disagio psicologico del pensiero della decomposizione. Non si tratta di cinismo, ma solo di realismo.

Per cominciare è indispensabile fare chiarezza sui termini usati: leggo affermazioni tanto inesatte al punto da fraintendere la realtà.

Morte cerebrale: è una espressione errata, dannosa, fuorviante. Troppo usata, purtroppo, come sinonimo di “morte encefalica”, che invece è tutta un’altra questione. Per dare un’idea, anche se grossolana: come se affermassimo che
dormire profondamente è come essere morto.

Invece, con “morte encefalica” si intende il silenzio elettrico (l’assenza totale, ripetutamente registrata, di ogni attività nella corteccia cerebrale, nel ponte e nel bulbo: tutto l’encefalo!) di ogni struttura deputata a generare e coordinare qualsiasi altra attività del corpo.

Anche solo da questa generica definizione chiunque può capire che se uno che sembra morto, perché magari non risponde alle parole e ai suoni intorno a lui, ma invece respira da solo e il suo cuore batte autonomamente, evidentemente non è davvero morto! Succede che una parte dell’encefalo sia rovinata, ma non tutto: ciò che regola cuore e polmoni funziona! Non entriamo qui nel delicato argomento di come si voglia considerare la vita di questa ipotetica (ma poi mica tanto!) persona: sofferente, non dignitosa, inutile, insopportabile (per gli altri). Queste sono valutazioni diverse dalla semplice constatazione che la vita non ha abbandonato quel corpo.

Come stabiliamo la morte? Rilevando la cessazione delle funzioni che conosciamo necessarie alla vita: respirazione e circolazione. Chiaramente deve essere una cessazione, non una temporanea e breve interruzione; ma sappiamo anche che un quarto d’ora nell’adulto, mezzoretta nel bambino, senza respirare e/o battere del cuore (e le due cose sono strettamente collegate) causano la morte. In pratica: senza ossigeno (procurato nei polmoni) distribuito in tutto il corpo dalla pompa-cuore, il cervello (tutto il cervello!!!) si danneggia e non funziona più, ovvero non è in grado di assolvere alla sua funzione di struttura di coordinamento e di input per tutte le funzioni vitali. E’ un meraviglioso meccanismo autoregolamentato: l’encefalo fa da centralina elettrica, la circolazione porta l’ossigeno dai polmoni alla periferia, anche alla centralina stessa. Interrompere a qualsiasi livello queste funzioni integrate è mettere la macchina corporea fuori uso. Se vediamo qualcuno gravemente traumatizzato, trapassato da pallottole, esanime, senza respirazione, intuiamo la sua morte; ma il motivo vero, in ultima analisi, è sempre riconducibile all’impossibilità di assicurare ossigeno e acqua ai tessuti!

Non sembri, questa elementare descrizione dei meccanismi fisici, dettata da indifferenza verso i sempre presenti significati metafisici: ma è troppa la confusione attualmente presente per tralasciare il lato più concreto.

Coma (depassé, profondo: aggettivi ancora usati ma inesatti) stato vegetativo (permanente o persistente che dir si voglia: in ogni modo si dice impropriamente), non sono equivalenti della morte encefalica: ovvero dello stato in cui, per quel che ne sappiamo finora, la capacità di provvedere ai processi vitali (appunto quelli che consentono la vita) è venuta meno.

E con chiarezza si può affermare che oggi in Italia la legge consente l’espianto di organi solo in caso di morte accertata con criteri neurologici che definiscano un quadro di morte encefalica e non cerebrale.

Per dirla bene: l’elettroencefalogramma piatto NON è ancora morte encefalica, non si espiantano organi se i centri profondi bulbari danno ancora segno di attività elettrica.

Qualcuno può riferire di una certa “fretta” nel cercare di ottenere il permesso dei parenti (in Italia ancora vincolante): e qui si apre la voragine di un corretto rapporto e comunicazione dei medici nei confronti dei pazienti e delle loro famiglie. C’è poi il grande dramma psicologico di vedere qualcuno che amiamo sottoposto a ciò che sembra una cura medica (circolazione e ventilazione forzate per mantenere quel necessario apporto di ossigeno): bisognerebbe spiegare bene che sono solo i tempi richiesti proprio per quell’accertamento rigoroso dei criteri di morte encefalica; bisognerebbe riuscire a far intendere che è proprio un meccanismo di sicurezza per accorgersi se ci si è sbagliati, se una registrazione si è interrotta dando risultati falsati. E’ durissimo vedere e sentir parlare di “cadavere a cuore battente”, perché siamo tradizionalmente legati all’immagine del cuore come centro della vita, ma è indispensabile fare uno sforzo chiarificatore per togliere, per quanto è possibile, l’illusione di vita.

Certamente nessuna legge riesce ad impedire l’abuso: e la consapevolezza di questo dovrebbe sempre accompagnare il legislatore, inducendolo ad una prudenza e ad una umiltà che consentano sempre l’aggiornamento sulla base di eventuali nuove scoperte tecnico-scientifiche.

domenica 31 agosto 2008

L'Orso e l'Aquila


Quarant'anni fa i carri armati russi facevano il loro ingresso a Praga per reprimere una volta per tutte l'intrepido tentativo della classe politica e del popolo cecoslovacchi di introdurre alcune riforme democratiche in uno dei sistemi più immobilizzati di tutta la compagine sovietica. Il movimento riformatore durò da gennaio ad agosto, quindi fu bruscamente interrotto dall'intervento delle truppe del Patto di Varsavia. Questa fase venne poi chiamata «Primavera di Praga». I carri armati russi restarono a presidiare la Cecoslovacchia per 23 anni.


Quella del 2008 era attesa come un'estate olimpica di ordinario entusiasmo. Non è stato così. Forse in futuro verrà ricordata come «Estate georgiana» o forse si dirà semplicemente che in questa stagione l'Orso russo si è risvegliato e ha voluto mettere in chiaro che non gradisce più veder svolazzare l'Aquila americana troppo vicino alla sua tana. Sembra una favola d'Esopo, ma è la realtà che tutti i giorni ci si presenta al risveglio. Per la prima volta dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, Mosca ha ufficialmente lanciato una campagna bellica contro uno Stato sovrano.


Le operazioni miliari russe contro la Georgia hanno aperto, di fatto, una nuova fase dell'era post-sovietica: l'obiettivo è quello di arrestare l'espansione della NATO verso est e di vendicare definitivamente le umiliazioni subite dall'impero in declino all'inizio degli anni '90. Questo conflitto è scoppiato otto mesi dopo la rielezione del presidente georgiano filo-occidentale Saakachvili, sei mesi dopo la dichiarazione di indipendenza della provincia serba del Kosovo (17 febbraio 2008) e quattro mesi dopo il summit NATO di Bucarest. Quest'ultimo viene ricordato per i profondi dissensi tra i paesi membri in merito all'avvicinamento all'Alleanza di Ucraina e Georgia, sponsorizzate dagli USA e ostacolate da Francia e Germania.


Dopo aver perso lo status di superpotenza, la Russia si è impegnata a riacquistare la sua influenza regionale, decidendo di riappropriarsi dei suoi interessi nella regione del Mar Nero: zona di altissima valenza simbolica e di pari importanza strategica. Dopo il crollo dell'URSS, al Cremlino è rimasto, infatti, il controllo di una striscia di territorio rivierasco che va dalla città di Sochi (sede già designata delle Olimpiadi invernali del 2014) al mare di Azov, di fronte all'Ucraina. Proprio in questo paese, a Sebastopoli, i russi hanno mantenuto le basi navali per la flotta del Mar Nero; l'accordo con l'Ucraina scadrà solo nel 2017, ma la mobilitazione della flotta contro la Georgia, negli scorsi giorni, ha provocato profondi dissapori tra gli esecutivi di Mosca e Kiev.


I conflitti «congelati» si sono d'un tratto infiammati e rischiano di incendiare la regione. Eppure, nel luglio 1997, durante il vertice NATO di Madrid, i rapporti tra l'Alleanza e la Russia sembravano essersi addolciti parecchio, tanto che era stato avviato un nuovo fondamentale capitolo nelle relazioni NATO-Russia, con la decisione di istituire un foro privilegiato per la cooperazione e la sicurezza tra l'Alleanza e l'ex-nemico: il Consiglio Permanente Congiunto NATO-Russia (PJC). Lavoro sprecato, a quanto pare. Durante la riunione della NATO del 19 agosto il segretario generale ha dichiarato che tra la Russia e l'Alleanza niente sarà più come prima, anche se il PJC non cesserà di esistere; eppure la marina russa ha già cancellato la propria partecipazione alle manovre congiunte nel Mar Baltico. Intanto, USA e Polonia hanno siglato l'accordo per installare una batteria di missili Interceptor sul suolo polacco e, in pochi mesi, lo stesso accordo sarà siglato con la Repubblica Ceca per il posizionamento di un radar di supporto.


Si ritorna a Praga dunque, quarant'anni dopo. Gli orsi non tollerano che altri animali si avvicinino troppo alla loro tana. Sembra una favola d'Esopo, ma è la realtà.


di Alessandra Poggi

mercoledì 27 agosto 2008

Davanti ai massacri anticristiani la tiepida laicità europea non basta


Tra l’estremismo indù che nell’Orissa brucia vive le suore e il grande happening religioso alla convention democratica di Denver, l’Europa sta a guardare, forte della sua superata concezione della religione e della laicità, che non ci difende dai massacri terroristici né ci protegge dalla religione-spettacolo dei buoni sentimenti.


In Europa vige ancora l’idea, di origine weberiana, che la società non può accettare una morale della convinzione, che si tradurrebbe in una lotta di tutti contro tutti, in quanto contrasterebbe con il pluralismo dei valori delle società moderne, ma solo una morale della responsabilità, nella sostanza un relativismo etico che cerca di ridurre i danni delle conseguenze delle nostre scelte, tutte ammesse. Habermas vede la società come una “immensa discussione”, vale a dire come una grande contrattazione dialettica a cui tutti abbiano accesso.


Ora, gli estremisti dell’Orissa, con le loro atroci azioni, mettono a nudo la fragilità di queste visioni deboli della laicità, come del resto hanno fatto qualche anno fa gli abitanti delle banlieau parigine e fanno adesso a Londra 4 cittadini musulmani su 10 secondo cui bisognerebbe introdurre la sharia nell’ordinamento inglese. Se fosse per loro, il pluralismo nel senso weberiano o habermasiano del termine sarebbe solo una parentesi storica. Del resto, la tiepidezza con cui l’Europa accoglie le tragiche notizie delle persecuzioni dei cristiani in oriente e la indisponibilità a farsi carico della loro protezione, come se l’Occidente potesse rimanere equidistante dalla religione della suora arsa viva e da quella degli aguzzini indù, la dicono molto lunga sul nostro concetto di laicità, vuoto di senso e paralizzante qualsiasi azione pubblica che non sia di indifferenza.


Ma rimaniamo spiazzati anche dalla massiccia presenza della religione nella convention democratica di Denver. Negli Stati Uniti è possibile non credere ed essere americani lo stesso. E’ però possibile anche credere ed essere americani lo stesso. Citare Tocqueville non è solo questione di circostanza: ”La libertà vede nella religione la compagna delle sue lotte e dei suoi trionfi; la culla della sua infanzia, la fonte divina dei suoi diritti. Essa considera la religione come la salvaguardia dei costumi, i costumi come la garanzia delle leggi e il pegno della sua durata”. Il problema è piuttosto un altro: alla convention di Denver non è nata una superreligione piuttosto sincretista, fatta di slogans ad effetto, di generiche promesse di giustizia e pace, una miscela indistinta accomunata da un generico misticismo e da un “messianismo senza Dio”? La cartina al tornasole qui è data dal tema della vita: tutti i gruppi religiosi che hanno sostenuto Obama a Denver non sono stati in grado di accordarsi sulla questione dell’aborto, né hanno saputo chiedere al candidato un impegno chiaro in questo senso. Né lui l’ha richiesto.


Viene in mente quanto Joseph Ratzinger diceva ad Habermas nell’incontro pubblico di Monaco di Baviera del 2004: sia la religione che la ragione hanno le proprie patologie ed hanno bisogno l’una dell’altra per correggerle. L’estremismo fondamentalista è una religione impazzita che ha bisogno di ritrovare la ragione. La ragione che non riconosce i propri limiti davanti al diritto alla vita ha bisogno di essere corretta dalla religione. Senza questa doppia correzione reciproca, la religione tende a farsi confusamente politica, ossia a dare ragione a Weber che vorrebbe tenerla alla larga dalla vita pubblica, e la ragione tende a farsi antireligiosa, almeno nella forma dell’indifferenza. Però una religione tenuta alla larga dalla vita pubblica non riesce a correggere le disfunzioni e le contraddizioni della ragione politica e non permette a quest’ultima di moderare la presenza religiosa nella società.


Il dialogo tra le religioni è fondamentale per il futuro. Perché esso sia possibile è necessaria la libertà religiosa, cioè il riconoscimento razionale di un diritto fondamentale dell’uomo. La religione ha bisogno della ragione. Ma ci sono religioni che misconoscono questo diritto, non tutte le religioni accettano la ragione. Ecco perché la ragione diventa fonte di discernimento delle religioni. In fondo Benedetto XVI a Regensburg il 12 settembre 2006 aveva sostenuto proprio questo.


di Stefano Fontana

Tutte le persecuzioni dei cristiani nel mondo


L’India è lo specchio del mondo. Quello che accade qui vale anche altrove. Accade in Pakistan, Iran, Arabia Saudita, Algeria. Sudan, ultimamente anche in Egitto. È un attacco pesante, che ha radici forti e non risparmia nessuno. Le comunità cristiane locali danno fastidio perché con la loro stessa esistenza diffondono una religione, una cultura e un sistema di vita fondati sul valore assoluto della persona umana, quindi sulla libertà, l’eguaglianza di tutti di fronte allo Stato, la donna con gli stessi diritti dell'uomo, la democrazia, la giustizia sociale.


Ecco perché le persecuzioni anti-cristiane dovrebbero interessare molto di più giornali, televisione, programmi culturali e università. Questa violenza non riguarda solo una religione, quella cristiana, ma un intero sistema di valori, visto che il cristianesimo è alla radice del nostro modo di vita occidentale. Non illudiamoci, oggi la persecuzione anti-cristiana è contro l'Occidente democratico e dei diritti dell'uomo e della donna. Se nei Paesi altri risultassero vincenti l’ideologia indutva e il fondamentalismo islamico, o anche il comunismo del boom economico di Cina e Vietnam, sarebbe in pericolo non il cristianesimo (noi crediamo per fede che non corre questo rischio), ma l’Occidente stesso. È questo il problema. Questo è il dramma.


L’indutva, cioè l’ideologia religioso-culturale-politica del nazionalismo indiano, ha molte radici tra cui anche quella religiosa e non è facile per il Paese liberarsene. E la cronaca lo conferma. Il fatto grave degli assalti ai cristiani nello stato di Orissa è la continuità di queste manifestazioni d’intolleranza indù, strumentalizzata dal Bharatiya Party, verso le minoranze religiose: i musulmani (circa il 13% degli indiani), ma questi rispondono colpo su colpo, mentre i cristiani (2,5%) si difendono, ma senza odio e senza sentimenti di vendetta e di rivalsa. L’opinione pubblica occidentale è abituata a pensare che i cristiani sono perseguitati soprattutto nei Paesi islamici o a regime comunista. Ma sta venendo alla ribalta il fondamentalismo indù, che le autorità di un Paese democratico come l’India tollerano o non riescono a dominare. Quel che preoccupa la Chiesa indiana, e dovrebbe ottenere maggior attenzione nei mass media occidentali, non sono i singoli casi di persecuzione, ma l’atmosfera generale d'intolleranza che sta crescendo nei confronti dei cristiani. È bene anche conoscere i motivi di questa persecuzione. Un volantino, distribuito a Bangalore nel Natale 2007 elenca i «crimini» dei cristiani: trattare tutti allo stesso modo, educazione delle donne, rifiuto del sistema delle caste. Nel testo, firmato da gruppi nazionalisti indù, si legge che i cristiani dello Stato meridionale del Karnataka «devono abbandonare immediatamente il territorio indiano, oppure tornare alla religione madre dell'induismo». Altrimenti «dovranno essere uccisi da tutti i bravi indiani». In questo elenco dei «crimini» cristiani manca il principale. Le chiese, le loro scuole e opere di promozione umana, lavorano soprattutto fra i più poveri, che sono i «paria» (fuori casta), circa 130 milioni su un miliardo e 60 milioni, ancor oggi discriminati. Grazie alle scuole missionarie si è creata nei «paria» una coscienza nuova dei loro diritti e questo dà fastidio sia ai rigidi custodi della tradizione religiosa (che considera i paria «intoccabili» per motivazioni religiose), sia a tutti quelli (specie proprietari terrieri) che li hanno sempre considerati come servi della gleba. È questo che fa paura: la libertà cristiana e occidentale.


Piero Gheddo (Il Giornale)

sabato 23 agosto 2008

Alle radici della guerra in Ossezia cap. 2


Il 23 novembre 1989 una folla di nazionalisti georgiani marcia su Tskhinvali, venendo però respinti dalla guarnigione sovietica. Il 20 settembre 1990 l'Ossezia del Sud proclama la sua indipendenza. A ottobre gli osseti boicottano le elzioni georgiane. Il 10 dicembre 1990 è la Georgia a dichiarare illegale il voto osseta, sopprimendo anzi l'autonomia della Provincia. L'11 scorre a Tskhinvali il primo sangue. Il 12 il governo georgiano proclama lo stato d'emergenza, mandando milizia e polizia a disarmare i gruppi armati osseti. Il 5 gennaio l'ingresso di questi reparti a Tskhinvali accende formalmente il conflitto. Una prima tregua salta quando il 29 gennaio il presidente del Soviet Supremo Osseta Torez Kulumbegov si reca a Tblisi per negoziare, ma non appena arriva è arrestato per istigazione all'odio etnico. Verrà poi rilasciato nel dicembre del 1991, ma nel frattempo c'è stata un'escalation, con il blocco della Georgia agli osseti e i massacri commessi dagli osseti in vari villaggi georgiani. Risultato: almeno 80.000 profughi. Nel febbraio del 1992 truppe russe cominciano a intervenire al fianco degli osseti. Ma già il 6 gennaio 1992 il presidente georgiano Zviad Gamsakhurdia è rovesciato da un golpe-insurrezione pure appoggiato da Mosca, e al suo posto è andato Eduard Shevardnadze, l'ex-ministro degli Esteri dell'Urss di Gorbaciov. Il 24 giugno 1992 Shevardnadze e Eltsin concordano un cessate il fuoco che congela la situazione: dopo 3000 morti, l'Ossezia del Sud e l'altra regione ribelle dell'Abkhazia restano in un limbo di indipendenza di fatto, non riconosciuta da nessuno. Il 14 luglio inizia a funzionare una commissione mista per il controllo dell'armistizio, con pattuglie miste di georgiani, russi e osseti. Il 30 ottobre 1995 i governi georgiano e sud-osseta si accordano per un negoziato, sotto la mediazione di Russia e Ocse. E nel maggio 1996 Shevardnadze firma con il presidente sud-osseta Ludwig Chibirov un memorandum sul modo di provvedere sicurezza e mutua fiducia.


Malgrado la "mutua fiducia", però, i rifugiati non tornano se non in minima parte, anche per le difficili condizioni economiche. E d'altra parte i conflitti irrisolti in Cecenia e tra Armenia e Azerbaigian trasformano tutta l'aria in una polveriera, creando un clima di instabilità in cui si inseriscono le mafie, trasformando l'Ossezia del Nord in una loro roccaforte da cui partono traffici di ogni sorta, proprio profittando dello status incerto dell'Ossezia del Sud. La stessa Ossezia del Nord è colpita dalla vendetta del terrorismo ceceno, con la strage di Beslan. Nel novembe del 2003 il malcontento del nazionalismo georgiano è una delle componenti di quella Rivoluzione delle Rose che fa saltare Shevardnadze. Contro il nuovo presidente Mikheil Saakashvili, con la sua linea filo-occidentale, i russi appoggiano la rivolta del governo autonomo dell'Ajaria: regione di quella minoranza di georgiani che invece che la religione ortodossa seguono quella islamica. Ma nel maggio manovre militari georgiane combinate a manifestazioni dell'opposizione ajara provocano la caduta del presidente ajaro Aslan Abashidze, che si proclama fedele a Shevardnadze, ma che è costretto a sua volta all'esilio.


È appunto questo successo che incoraggia Saakashvili ad andare avanti sui suoi programmi di "riunificazione nazionale". All'inizio in modo pacifico, con l'offerta a Ossezia del Sud e Abkhazia di aiuti umanitari, "un'autonomia su standard europei" e un'ampia amnistia. Ma presto le opposte forze armate iniziano a fronteggiarsi col fucile alla mano, a minacciarsi, a prendere prigionieri, a spararsi addosso. Varie centinaia di "volontari" russi, principalmente cosacchi e nord-osseti, iniziano ad affluire per "difendere" l'Ossezia del Sud. Già nell'agosto del 2004 gli scontri provocano la morte di 16 georgiani e di "varie decine" di russi e osseti. Un ultimo accordo di "smilitarizzazione" tra le parti è firmato con la mediazione russa il 5 novembre 2004. Ma il 6 dicembre 2005 l'Ocse dichiara il suo appoggio al piano di Saakashvili per la reintegrazione di Abkhazia e Ossezia del Sud nella Georgia, dando spunto allo stesso Saakashvili per dichiare ormai "concluso" il ruolo russo di mediazione e peace-keeping. Il 3 settembre 2006 truppe sud-ossete aprono il fuoco contro un elicottero che trasporta il ministro della Difesa e il capo di Stato maggiore georgiani. Il 31 ottobre del 2006 la polizia sud-osseta afferma di aver ucciso un gruppo di 4 "terroristi" ceceni al servizio della Georgia, accusati di voler compiere attentati nel giorno del referendum sull'indipendenza del 12 novembre. Tblisi smentisce, ma lo stesso giorno del voto giorno in cui nelle aree ossete sotto controllo georgiano è eletto un governo filo-Tblisi sotto la presidenza di Dmitry Sanakoyev, alternativo a quello indipendentista di Eduard Kokoity: un sempre più evidente tentativo di ripetere la mossa ajara. Il 10 maggio 2007 Sanakoyev è nominato da Saakashvili alla testa della nuova "Entità Amministrativa Provvisoria Sud Osseta": decisione cui segue lo stabilimento di una Commissione che studia il nuovo status della regione, mentre inizia nelle aree ossete sotto controllo georgiano una politica di massicci investimenti.


Il 7 agosto 2007, un anno fa esatto, un missile cade su un villaggio georgiano, senza esplodere: Tblisi accusa due caccia russi, che avrebbero mirato a un'installazione radar. La Nato conferma l'accusa, che Mosca respinge. Tra il 14 e il 15 giugno 2008 sud-osseti e georgiani si sparano addosso, accusandosi a vicenda di aver iniziato e provocando un morto e 4 feriti. Il 3 luglio 2008 un ufficiale della polizia sud-osseta è ucciso in un bombardamento aereo. Il 4 luglio due miliziani osseti muoiono nell'attaco a un posto di polizia, seguito da un bombardamento che provoca un altrro morto, e che la Georgia dice di aver effettuato per difesa. Il 6 luglio 4 abkhazi muoiono e sei altri sono feriti dall'esplosione di una bomba di cui l'Abkhazia accusa i georgiani e i georgiani una provocazione russa. Il 7 luglio c'è un altro conflitto a fuoco. L'8 luglio quattro soldati georgiani sono presi prigionieri e poi liberati. Il 9 luglio i jet russi sorvolano l'Ossezia del Sud, provocando il richiamo dell'ambasciatore georgiano a Mosca, proprio mentre Condeleeza Rice è a Tblisi per appoggiare la richiesta georgiana di adesione alla Nato. Il 15 luglio sia gli Stati Uniti che la Russia iniziano manovre militari inb Caucaso. Il 19 luglio un posto di polizia georgiano è attaccato da abkhazi, con il risultato di un morto. Il 29 luglio Ossezia del Sud e Georgia si accusano a vicenda di attacchi. Tra il primo e il 2 agosto si acccende una battaglia che provoca sei morti e 21 feriti, e che è seguita da altri scontri sporadici durati fino al 6. Il 7 un bombardamento dell'artiglieria georgiana provoca 4 morti. Dopo un effimero cessate il fuoco, l'8 agosto si scatena l'assalto georgiano "per restaurare l'ordine costituzionale nell'intera regione". Ma i georgiani oltre ai sud-osseti si trovano di fronte anche le forze di peace-keeping russe, accendendo una battaglia che provoca ormai oltre 1400 morti.
L'Occidentale 9 Agosto 2008

Alle radici della guerra in Ossezia cap. 1

Ricordate i Cavalieri Sarmati del film del 2004 King Arthur? Sia gli Osseti del Nord vittime del terrorismo islamico a Beslan, sia quegli Osseti del Sud che stanno ora attizzando a una vera e propria guerra tra Russia e Georgia sono loro discendenti. Sarmati e Sciti, noti agli antichi greci e romani, erano una serie di tribù di pastori e cacciatori nomadi, ma in alcuni casi anche di agricoltori. Abitavano nei territori delle attuali Polonia, Ucraina e Russia meridionale, parlavano dialetti del gruppo iranico nord-orientale. Furono loro, riferiscono le cronache classiche, a inventare lo spinello, aspirando il fumo della canapa indiana chiusi dentro a una specie di "sepolcri". Furono loro a ideare pure quell'armatura per cavalieri catafratta che copiata poi da persiani, romani e germani avrebbe dato origine alla cavalleria medievale. Gruppi di sarmati e sciti resi vassalli di unni, goti e vandali parteciparono al grande assalto all'Impero Romano, contro la cui espansione si erano a lungo opposti. Pur non trascurando, in molti casi, di servire nelle Legioni come mercenari. Un gruppo di loro a un certo punto riuscì a ritagliarsi in Spagna e in Francia del Sud regni indipendenti, che furono però poi riassorbiti dallo Stato Visigoto. Era la tribù dei cosidetti Alani, selezionatori anche del famoso cane che avrebbe preso il loro nome (anche se probabilmente il cane alano moderno non ha preso da quello antico se non la denominazione).

Più in generale, i Sarmati, Sciti e Alani sparsisi per l'Europa si sarebbero poi fusi alle popolazioni latinizzate, germaniche o slave in mezzo a cui erano finiti, perdendo completamente la proppria identità nel calderone. Ma alcuni aspetti della loro cultura sarebbero poi stati fatti propri dalla civiltà europea medievale: la già citata cavalleria corazzata, ad esempio; e anche l'uso massiccio di animali selvatici nelle decorazioni. Un popolo di contadini alani convertiti al cristianesimo da missionari bizantini avrebbe invece mantenuto la propria lingua iranica ancestrale in un angolo del Caucaso, formando tra VIII e IX secolo un regno indipendente, distrutto però dall'invasione mongola del 1238-39. Dopo di che, una parte degli alani sarebbe stata assorbita dai turchi. Un'altra parte sarebbe stata inclusa nel Regno di Georgia mantenendovi però la propria lingua, fino all'annessione della Georgia alla Russia del 1801. Una terza componente del popolo alano, infine, dopo aver sopravvissuto per secoli in una precaria indipendenza sempre in lotta con i turchi dell'Impero Ottomano e con i tatari del Khanato di Crimea, si sarebbe spontaneamente messa sotto la sovranità russa nel 1767.

La parola "osseta" viene appunto dalla denominazione georgiana degli alani, poi fatta propria dai russi. Sotto il comune dominio di San Pietroburgo georgiani e osseti, di identica fede ortodossa, si mescolarono massicciamente. Lo stesso Stalin era figlio di un osseta georgianizzato e di una georgiana: ma il particolare che alludere al suo sangue osseta fosse uno dei modi più sicuri per finire nel Gulag dimostra come questa convivenza sia stata tutt'altro che senza spine. E infatti tra 1918 e 1920 la dichiarazione di indipendenza georgiana dopo la Rivoluzione di Ottobre provocò un primo conflitto sfociato in una catena di massacri reciproci tra il governo menscevico di Tblisi e i Soviet bolscevichi in cui gli osseti si erano organizzati, con un saldo di oltre 5000 morti. Vinsero i georgiani, ma quando nel febbraio del 1921 l'Armata Rossa mosse alla riconquista della Georgia molti osseti si unirono all'esercito invasore. Nell'aprile del 1922 il governo della nuova Georgia sovietica stabilì dunque una Provincia Autonoma dell'Ossezia del Sud in cui furono inseriti varie aree a popolazione integralmente o in maggioranza georgiana. Compreso lo stesso capoluogo Tskhinvali.

L'Ossezia del Nord era stata nel frattempo inclusa nel 1921 in una effimera Repubblica Sovietica della Montagna, per poi diventare nel 1924 anch'essa Provincia Autonoma, ed essere promossa nel 1936 a Repubblica Autonoma all'interno della Russia. Confermando la loro tradizione filo-russa, al momento dell'attacco tedesco gli osseti non seguirono l'atteggiamento favorevole agli invasori di altre etnie della regione, come balkari, ceceni o ingusci. Per questo furono risparmiati dagli ordini di deportazione impartiti da Stalin per punire i "traditori", e anzi nel 1944 l'Ossezia del Nord è ingrandita con un pezzo di Ceceno-Inguscezia. Si crea insomma l'eredità di risentimenti che esploderà al momento della dissoluzione dell'Urss. Il 10 novembre 1989, in particolare, il Soviet Supremo dell'Ossezia del Sud decide la secessione dalla Georgia per unirsi alla Russia, e poter così riunificarsi con l'Ossezia del Nord.

giovedì 21 agosto 2008

Il ritorno della Russia


La questione georgiana è andata molto al di là del problema posto dal colpo di mano tentato dal governo di Saakashvili in Ossezia del Sud. E' apparso evidente che il premier russo, Vladimir Putin, ha voluto porre un cuneo tra Unione Europea e Stati Uniti. La politica di inclusione dei paesi post-sovietici nell'Unione Europea era andata parallela alla loro inclusione nella Nato. Agli occhi dei paesi dell'Est europeo l'una cosa e l'altra sembravano filare di perfetto accordo. Ora l'armonia si è dissolta perché i due sistemi, quello americano e quello europeo, hanno parlato diversi linguaggi, pur non avendo nessuno dei due la potenza di cambiare i fatti sul terreno.


L'Unione Europea ha potuto avere la parte più facile, cioè quella di proporre al governo di Tbilisi le condizioni russe; e, sul piano formale, sia il presidente russo Medvedev che quello georgiano le hanno recepite. Ma l'attacco russo in terra georgiana non è finito con la firma, da parte dei due presidenti, dell'accordo negoziato da Sarkozy. L'armata russa ha mantenuto la sua presenza in Georgia, trattandola come un paese occupato e riservandosi il diritto di saccheggio ed espulsione degli abitanti. Non è prevalsa la logica della difesa dell'Ossezia, ma quella della punizione del governo georgiano e del suo popolo, mostrando che le colpe dell'esecutivo, agli occhi di Mosca, diventavano sciagura per tutto il popolo. E' stata la prova dei fatti, con una durezza mai vista prima che ha avuto per oggetto soprattutto civili. E l'esercito georgiano non ha nemmeno combattuto: è stato sopraffatto fin dall'inizio. Così la Russia ha dimostrato il suo potere di annettere la Georgia al suo territorio trattando il popolo georgiano come un suddito ribelle.

E' apparso così chiaro che c'erano due gestori della crisi in campo russo: uno il presidente Dmitry Medvedev, che firma gli accordi con il presidente francese e riceve il segretario di Stato americano, l'altro il premier Vladimir Putin, che si muove su un piano parallelo. Il primo offre all'Unione Europea la possibilità di siglare un accordo che ratifica un diritto all'intervento russo, assicurando però lo sgombero delle truppe di occupazione. Il secondo permette di fatto all'armata russa di permanere nel territorio georgiano distruggendo strade e ponti. Il diritto formale vale per l'Unione Europea, l'occupazione reale per gli Stati Uniti. Putin ha scelto bene il suo tempo, proprio mentre gli Stati Uniti conoscono il declino della presidenza Bush e la campagna elettorale per il nuovo presidente si svolge su ben altri temi. Il fatto russo può anche incidere sul risultato elettorale. E si delinea la minaccia di portare nella enclave di Kaliningrad le testate nucleari russe: lì erano nei tempi sovietici.


Uno scenario da guerra fredda. La storia è tornata indietro quando il passato sembrava definitivamente superato. Ci vorrà del tempo prima che l'Occidente capisca di dover tornare Occidente e anche i limiti del suo poterlo fare. La Russia è tornata Russia, nazione che ha in sé il concetto di impero, non cancellato dalla fine del sistema sovietico. Ciò non significa che le cose tornino come prima: la potenza tecnologica occidentale non ha confronti con quella russa, ma il problema di definire i rapporti tra Usa, Ue e la Russia di Putin è ora riaperto e l'unità di interessi tra Europa e Stati Uniti non è chiara come anche non è chiara la differenza tra l'Europa dell'Ovest e quella dell'Est. Sicuramente il quadro politico europeo è mutato e ciò sfida l'Occidente nel suo insieme.


Gianni Baget Bozzo

Quella primavera insanguinata. La Primavera di Praga


.....La Cecoslovacchia - dopo il colpo di stato del 1948 che aveva portato al potere i comunisti - era rimasta fino agli anni '60 un tranquillo membro del Patto di Varsavia, cioè una di quelle «democrazie popolari» che nulla avevano né di democratico né di popolare e ove vigeva un regime ferreo e ottuso di stretta osservanza sovietica. Ma all'inizio degli anni '60 entrarono nel partito comunista cecoslovacco alcuni personaggi portatori di un’ideologia riformista, che mirava a uscire dalla crisi sociale e dalla stagnazione economica restando sì nel sistema politico socialista, ma emancipandolo dalla dipendenza sovietica e dalla burocrazia centralista. Sostenuti dalla élite intellettuale, costoro iniziarono una battaglia cui, nell'ottobre 1967, aderirono con entusiasmo gli studenti: senza luce e al freddo non si poteva studiare.


La svolta avvenne nel gennaio del '68 quando, durante i lavori del Comitato centrale, il primo segretario del partito comunista cecoslovacco (che come in tutti i regimi sovietici era l'uomo più potente del paese, e che allora era Novotny) fu costretto a dimettersi e a lasciare la carica a Alexander Dubcek, allora oscuro segretario del partito comunista slovacco.


Cominciavano così i mesi della grande utopia, come è stata chiamata, o della grande illusione: i mesi cioè in cui si sperò - contro ogni speranza - che fosse possibile dar vita a un "socialismo dal volto umano". Cambiano tutti gli uomini al potere (intorno a Dubcek, Cernik diventa primo ministro, Svoboda presidente della Repubblica, Smrkowsky presidente dell'Assemblea nazionale), vengono introdotti elementi di pluralismo economico e politico, la censura è soppressa, si cerca di riformare l'economia, abbandonando il centralismo e l'industrializzazione forzata (il solito mito marxista-leninista che tanti danni e lacrime ha portato ovunque). Anche la Chiesa si fa sentire e l'arcivescovo di Praga, l'eroico e indomito card. Tomasek («iurium humanorum strenuus defensor» sta scritto sulla sua tomba a Praga: strenuo difensore dei diritti umani), chiede lo scioglimento del Movimento dei preti per la pace (il solito organismo creato per motivi propagandistici dai comunisti quando vanno al potere) e lancia l'Opera di rinnovamento conciliare: così rinasce la stampa cattolica e lo Stato cessa ogni ingerenza nelle questioni ecclesiastiche.


Ma non poteva durare. Il processo di liberalizzazione allarmò pesantemente i dirigenti sovietici, che videro nella Primavera di Praga - giustamente, dal loro punto di vista - una malattia contagiosa, e dunque una minaccia per gli altri regimi comunisti.


Dubcek cercò in tutti i modi di rassicurare i sovietici, ma si illudeva. Dai verbali segreti delle riunioni del Patto di Varsavia (pubblicati sul n. 4/98 de «La nuova Europa») emerge chiaramente la preoccupazione di tutti i membri del Patto.


"Dobbiamo difendere la Cecoslovacchia - si legge - e con essa difenderemo anche tutto il blocco socialista". E così, nella notte fra il 20 e il 21 agosto 1968 (quando, come scrive Dubcek nelle sue Memorie, "era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito"), le truppe del Patto - 750.000 uomini e 6000 carri armati - invadono la Cecoslovacchia e mettono la parola fine alla Primavera di Praga. Dubcek, con altri esponenti politici, viene sequestrato e portato al Cremlino dove, nel tentativo di ammansire i sovietici, finisce per sottoscrivere, il 26 agosto, un accordo (il cosiddetto diktat di Mosca) in cui la priorità è data alla "lotta contro le forze antisocialiste". Comincia così il ritorno all'ordine: vengono evitate le sollevazioni popolari, anche se non mancano fatti tragici, come il rogo di Jan Palach, uno studente ventunenne che il 19 gennaio 1969 si diede fuoco nella piazza Venceslao di Praga per protesta contro l'occupazione sovietica. Ma la "normalizzazione" è in marcia, grazie anche all'abile manovra chiamata la "tattica del salame", con cui viene disgregato il gruppo che faceva capo a Dubcek, prima allontanando Smrkovsky, poi dividendo Cernik da Dubcek e Dubcek da Svoboda.Dopo di che la strada è in discesa.



Dubcek viene sostituito da Husak come primo segretario del PCC nell'aprile del 1969, poi espulso dal Presidium (in settembre, dopo le manifestazioni antisovietiche suscitate dalla vittoria della squadra di hockey ceca contro quella sovietica), quindi obbligato a dimettersi dal Comitato centrale nel gennaio 1970 e infine, dopo pochi mesi come ambasciatore ad Ankara, espulso dal PCC il 26 giugno 1970 (tornerà visibile, come presidente del parlamento, dopo l’89, per morire nel ‘92 in un incidente automobilistico). Gli intellettuali e gli studenti sono ridotti al silenzio, la polizia riprende il suo occhiuto potere, la censura torna a dominare, viene largamente praticata la denigrazione e la calunnia verso i personaggi più noti (che cosa non si è scritto, in quegli anni, contro Prochaska, contro Havel - che dopo l'89 diventerà presidente della Repubblica contro Pelikan e tanti, tanti altri?). Insomma, la Cecoslovacchia torna all'ovile, e dovrà aspettare vent'anni per riassaporare - con la "rivoluzione di velluto" del novembre 1989 - la libertà.Ma questa è un'altra storia.


In conclusione si può dire, come ha scritto Renzo Foa, che "il tempo, di solito prodigo di risarcimenti morali, non è stato generoso con Dubcek e con i «comunisti riformatori», che hanno finito per essere due volte sconfitti: in quanto riformatori (da altri comunisti) e in quanto comunisti (dalla storia)". Ma il comunismo è quello che è: esso non è in alcun modo riformabile, e la vicenda della Primavera di Praga ne è un'ennesima, drammatica conferma.


Resta però il fatto che “la realtà del comunismo è profondamente radicata nei cuori”, e che “il cambiamento delle strutture, del regime, non è ancora il cambiamento del cuore e della mentalità: molti, ancora adesso, agiscono sotto l'influsso di questa mentalità, anche senza rendersene conto”: così, con amarezza, ha constatato il Card. Vlk, arcivescovo di Praga in un’intervista a «Avvenire» del 20 agosto 1998.


Paolo De Marchi

Rapporto UNFPA, conta solo la salute riproduttiva


Il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (UNFPA) ha recentemente pubblicato il suo Rapporto annuale 2007, concentrato principalmente sul lavoro dell’organizzazione nel campo della “salute sessuale e riproduttiva”. La natura radicale del documento è svelata dal numero di volte in cui ricorrono certi temi. In 36 pagine “salute riproduttiva” e “diritti riproduttivi” – usati come eufemismo per intendere aborto – sono citate 80 volte.


Le più diffuse cause di morte come malaria e tubercolosi non vengono menzionate affatto. L’acqua pulita, notoriamente uno dei più gravi problemi nei Paesi poveri, non trova alcuno spazio mentre una sola citazione è dedicata alle fognature, la cui mancanza è una delle principali cause di morte nei Paesi in via di sviluppo.


Il Rapporto annuale rivela che nel 2007 più della metà delle spese dell’UNFPA sono andate per programmi di salute riproduttiva, per un costo di 146,6 milioni di dollari. Anche esaminando regione per regione, la maggioranza dei fondi è stata spesa in iniziative per la salute riproduttiva. Sebbene l’UNFPA si rifiuti di dare conto dei dettagli dei propri programmi e nel rapporto annuale manchi una contabilità finanziaria dettagliata, vi troviamo però la presentazione di alcune iniziative dell’agenzia.


Tra queste lo sviluppo nel 2007 di “linee guida e protocolli per i servizi di salute riproduttiva” nell’ex repubblica sovietica della Georgia. Per capire concretamente le pratiche sul campo si deve però guardare altrove. I comunicati stampa dell’UNFPA ci informano così della presenza di "squadre mobili per la salute riproduttiva" in Georgia che distribuiscono contraccettivi, inclusi i kit per inserire la spirale (IUD, intra-uterine devices), che può avere anche effetti abortivi.


Il rapporto rivela anche le tecniche usate per promuovere i programmi dell’UNFPA tra i minorenni. Al proposito l’UNFPA ha collaborato con il governo libanese per creare lebteen.com, un sito che incoraggia gli adolescenti a usare la pillola del giorno dopo. Promossa come “contraccezione d’emergenza”, la pillola può in realtà agire da abortivo causando l’espulsione dell’uovo fertilizzato.


Tra le iniziative più significative presenti nel Rapporto troviamo il nuovo “piano strategico”, che guiderà l’agenzia fino al 2011. Uno dei principali obiettivi è l’accesso universale alla salute riproduttiva entro il 2015 da raggiungere attraverso la promozione dei “diritti riproduttivi” – termine definito sul sito dell’UNFPA come inclusivo del diritto alla privacy – comunemente intesi come sinonimo di aborto. Il piano si concentra anche sulla salute mentale come “aspwetto integrale della salute riproduttiva”. Negli Stati Uniti e altrove la “salute mentale” è stata usata come pretesto per espandere il diritto all’aborto oltre i casi dove è in gioco la salute fisica della madre.


Gli indicatori che l’UNFPA userà per misurare il successo del suo piano includerà l’aumento del numero dei paesi che elargiranno fondi pubblici per i servizi di salute riproduttiva e la prevalenza nell’uso dei contraccettivi.


Un altro obiettivo del piano strategico è l’esercizio dei “diritti riproduttivi” da parte di donne e adolescenti. Questo obiettivo include l’uso del sistema dei diritti umani per espandere i “diritti riproduttivi” e integrarli nelle politiche nazionali sul rispetto dei diritti umani. Il successo dell’iniziativa sarà misurato dal numero di paesi che inseriranno i “diritti riproduttivi” tra i diritti fondamentali riconosciuti dalla giurisprudenza e dall’aumento di leggi che incorporano questi diritti.


di Stephen Braunlich

Il Papa: solo l'ateismo rovina l'ambiente


“Fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di ‘soggiogarla’ non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni”. E’ questo il passaggio centrale dell’intervento con cui papa Benedetto XVI ha risposto a una domanda sull’ambiente nel corso della conversazione avuta con il clero di Bressanone il 6 agosto scorso.


E’ un intervento fondamentale perché il Papa chiarisce una serie di equivoci e ambiguità sulla questione ambientale di cui sono vittima anche ampi settori della Chiesa. Contrariamente a ciò che hanno scritto i maggiori giornali, Benedetto XVI non ha affatto affermato che “sull’ambiente la Chiesa deve fare di più”, a intendere un sostegno per i movimenti ambientalisti. Il Papa ha invece detto che la Chiesa deve rivitalizzare la sua dottrina della Creazione, che “negli ultimi decenni era quasi scomparsa in teologia”. E’ peraltro ciò di cui era convinto l’allora arcivescovo Ratzinger che proprio per questo nel 1981 decise di tenere nella sua diocesi di Monaco di Baviera una catechesi sulla Creazione (ripubblicata di recente dall’editore Lindau nel volume “In principio Dio creò il cielo e la terra”). E’ qui che la Chiesa deve fare di più, ovvero tornare ai fondamenti della fede cristiana, il che permette di “imparare a capire in tutta la sua falsità”

l’accusa al cristianesimo di essere responsabile della distruzione ambientale a causa del suo antropocentrismo.


Da decenni infatti l’ascesa del movimento ecologista va di pari passo con l’attacco alla dottrina della Chiesa che pone l’uomo al vertice della Creazione: per salvare il pianeta – si dice allora – bisogna porre l’uomo alla pari degli animali e dei vegetali perché tutti gli esseri viventi hanno pari dignità. La massima espressione di questa mentalità è stata la promulgazione nel 2000, in sede ONU, della Carta della Terra in cui i diritti universali dell’uomo lasciano il posto alla centralità di una più ampia “comunità di vita” (sulla Carta della Terra, consigliamo di leggere “Le Bugie degli Ambientalisti”, Piemme).


Il Papa invita i cattolici a capire bene la falsità e il pericolo di questa ideologia, e porta anche l’esempio del monachesimo: “Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla”.


Per il Papa dunque il vero problema per l’ambiente è causato dall’ateismo: “Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze (…); E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte…”.


La posizione non potrebbe essere più chiara. Speriamo allora che queste parole del Papa trovino la necessaria attenzione anche nelle alte sfere della Chiesa italiana: si stanno infatti moltiplicando iniziative di diocesi e organismi ecclesiali che sulle questioni ambientali seguono il solco tracciato da associazioni ecologiste – come WWF, Greenpeace, Legambiente – figlie proprio di quell’ideologia denunciata dal Papa. Il sacrosanto interesse all’ambiente non può risolversi nell’aggiungere un cappellino spirituale a un vestito fatto da altri, oltretutto in odio alla Chiesa. Né può essere confuso il catastrofismo ecologista con il dono della profezia.


di Riccardo Cascioli