martedì 24 giugno 2008

Inondazioni, la lezione del fiume Aniene


Nei giorni 21 e 22 Maggio molti quotidiani hanno dato spazio alla notizia dello straripamento dell’Aniene, causato dalle forti precipitazioni, e della successiva dichiarazione dello stato di calamità naturale. Tra le zone più duramente colpite dall’allagamento: Ponte Lucano, Ponte Mammolo, Corcolle, Albuccione, etc., dove la protezione civile ed i vigili del fuoco sono dovuti intervenire per mettere in salvo alcune famiglie.

Lo straripamento del Nilo per gli antichi egizi era un evento che portava ricchezza al proprio territorio tanto che spesso seguiva una cerimonia per ringraziare le divinità. In generale il fatto che un fiume esca dagli argini a causa delle forti precipitazioni non dovrebbe destare meraviglia, essendo qualcosa, prima o poi, di ineluttabile. Anzi, sapendo questo, per vivere in sicurezza e prosperare, l’uomo dovrebbe costruire gli argini dei fiumi in modo da “guidare” lo straripamento in zone disabitate e/o almeno non costruire nelle zone dove è probabile che il fiume esca dagli argini.

Ad esempio a Roma, nella zona Magliana nel 1942 era prevista l’inaugurazione di un aeroporto che non vide mai la luce anche a causa degli effetti sulla zona successivi ad una storica piena del Tevere.

L’Aniene a causa del suo carattere impetuoso e delle sue forti variazioni di portata, storicamente ha sempre straripato nella zona di Tivoli fino a circa il 1835. Ripercorriamo brevemente la storia delle piene più famose.

Nel 105 d.C. Plinio il Giovane (Epist.8,17,3-5) scriveva: ”L’Aniene, il più delizioso dei fiumi, quasi affascinato e trattenuto dalle ville che ne sottolineano il corso, irruppe, divelse e travolse la maggior parte dei boschi che ne ombreggiavano l’alveo. Screpolò i monti e, qua e là ostacolato dai crolli di massi abbattuti, affannandosi a rientrare nella propria sede abbatté le case e prese a scorrere sulle loro rovine sommerse… Tutto questo poté osservare chi, sulla parte più alta della città, restò al riparo della tempesta. Egli vide galleggiare masserizie ponderose di ricchi, attrezzi agricoli, buoi, aratri, bifolchi ed ogni specie di armenti. E fra essi tronchi d’alberi, travi e tetti di ville. E anche là dove non giunse l’impeto del fiume, si scatenò la rovina perché piogge violentissime si scagliarono giù dalle nubi e le strutture delle ville franarono ed i monumenti caddero infranti”.

Successive grandi inondazioni di cui si ha notizia delle devastazioni sono nel 1530, 1564, 1576, 1589, 1669, 1680, 1688, 1689, 1693, 1742, 1757, 1779, 1808, 1822.

Nel 1826 il letto del fiume venne sconvolto da una disastrosa piena che oltrepassò la chiusa preesistente, che risaliva almeno al 1489, e la fece crollare, trascinando con sé, nell’impeto, anche diversi quartieri abitativi lungo il fiume.

Settiminio Bischi scrisse dell’evento del 1826:

”Chi potrà senza dolore e pena rammentare l’alluvione accaduta ai giorni nostri, e li danni da essa cagionati? Le piogge abbondanti del 14 e 15 Novembre 1826 essendosi accresciute nella notte seguente produssero una straordinaria alluvione che interruppe la comunicazione con Roma al Ponte Lucano ed al Ponte Mammolo. Il fiume oltremodo ingrossato, malgrado lo sbocco aperto nell’emissario della Stipa, nell’acquedotto Estense, e negli altri quattro appartenenti agli Opifici inondò tutti gli Orti sulle ripe della Città, ed il Brecceto, alzandosi le acque di due metri sul ciglio della Caduta erano ricoperti gli scogli più elevati dalle acque, che in massa si sforzavano di entrare nella sottoposta grotta di Nettuno. Mancava un’ora al mezzo-giorno, quando si riconobbe, che l’acqua formava un vortice nel Brecceto poco prima della caduta, e alla dritta. Erano le acque penetrate in un pozzo di calce, ed avendo trapelato nella volta di abbandonato acquedotto, ben presto il vortice si cambiò in ampia voragine, per la quale cercò l’acqua un passo più basso di quello del muro di cinta. Appena ciò riuscì, il labro del muraglione, e tutti gli acquedotti restarono senza acqua. Non potendo tale sbocco essere sufficiente, né potendo lo scoglio resistere a forza così grande si ruppe, crollò, e cadde con esso una casa superiore. Il fiume in tal guisa si aprì un nuovo letto circa 8 metri più basso dell’antico livello. L’abbassamento del fiume lasciò senza sostegno la riva sinistra, sulla quale era stata praticata la strada di S. Lucia. Furono portate viale passonate a difesa, le terre della ripa, gli Orti, il muro della strada, la Chiesa di S. Lucia, e tutte le case di quella ripa… Né qui si fermò la ruina, precipitò anche la strada principale, che da S. Valerio conduce a Palazze colle case poste dall’altro lato, non ché gran porzione del Palazzo Boschi, restando la residuale, come altri molti fabbricati, crepolati, e mal sicuri sopra un’altezza di metri 33 con base non proporzionata ed in alcuni luoghi perpendicolarmente per metri 15.La rovina principiata un’ora dopo il mezzogiorno del 16 continuò ancora nel giorno 17: il fiume che rapidissimo portava degli alberi interi di quercia dalle superiori montagne asportava da Tivoli li travi delle diroccate case, li mobili, le botti e tutte le grascie, che nel primo momento non si potevano salvare.”

Forse non avendo problemi con valutazioni d’impatto ambientale e non credendo fosse possibile far piovere come si desiderava attraverso modificazioni dei comportamenti umani, all’epoca si cercò di risolvere il problema in maniera drastica e definitiva. Il Pontefice Gregorio XVI bandì una gara per risolvere la questione; fu scelta tra le ventitrè proposte la più innovativa, il progetto di Clemente Folchi. Questo prevedeva un traforo del Monte Cavillo per piegare il corso del fiume ed indirizzarlo verso una zona disabitata. I lavori iniziarono il 6 luglio 1832 ed in soli due anni furono realizzati due cunicoli di 280 m che allontanavano per sempre la paura delle inondazioni da Tivoli. Oltre a rendere la città più sicura si era anche realizzata artificialmente Villa Gregoriana, ancor oggi un posto dove numerosi turisti vanno per guardare un paesaggio di rara bellezza solo apparentemente naturale.
Sotto Tivoli il percorso dell’Aniene non ha subito sensibili modifiche, così oggi quando a causa del suo carattere impetuoso e delle sue forti variazioni di portata in alcune zone straripa si legge sui quotidiani che la colpa delle imprevedibili calamità naturali sono la tropicalizzazione del clima, le stagioni cambiate a causa dell’incremento dell’effetto serra, il cambiamento climatico. Forse il vero problema è che l’uomo spesso non impara e non ricorda il passato, in certi casi più che pensare ai cambiamenti climatici futuri dovremmo tornare ad una maggiore conoscenza del territorio, ad una conoscenza dei fenomeni naturali locali dei quali occorre tenerne conto principalmente in fase di progettazione urbanistica.

di Fabio Malaspina (Fisico)

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