sabato 10 maggio 2008

Il capitalismo fa sempre bene, ben temperato

Talvolta va però protetto da se stesso. Con un bel libro a cui attingiamo, lo dicono due specialisti, uno indiano e l’altro italiano, che ci mettono in guardia da quei liberisti che finiscono per farsi protezionisti. Ovvio, scattano le critiche: ma sono manna perché il dibattito sta tutto sulla necessità di regole vere.

di Raghuram G. Rajan e Luigi Zingales

Il punto fondamentale di questo libro è che i liberi mercati, forse l’istituzione economica più benefica nota al genere umano, poggiano su fondamenta politiche fragili. In un’economia di mercato competitiva, sono le decisioni di una miriade di partecipanti anonimi a determinare i prezzi, i quali a loro volta determinano che cosa viene prodotto e chi viene ricompensato. La mano invisibile del mercato si sostituisce ai burocrati e ai politici in tutte queste decisioni. Ciò ha dato luogo all’erronea percezione che i mercati non abbiano bisogno dello stato. Ma i mercati non possono prosperare senza l’intervento visibile dello stato, indispensabile per realizzare e mantenere l’infrastruttura che consenta ai partecipanti di commerciare liberamente e con fiducia.È qui che nasce la tensione politica: le stesse difficoltà di organizzare azioni collettive che rendono necessario l’intervento dello stato impediscono al pubblico di fare in modo che il governo agisca nel pubblico interesse. Gli interessi privati organizzati possono quindi avere la meglio sui più vasti interessi pubblici. Lo scenario da incubo, che si è presentato in passato, si ha quando, con il pretesto di conquistare maggiore sicurezza per i disagiati, le classi dominanti ottengono invece la propria sicurezza sopprimendo il mercato. Chi ci rimette è il libero mercato e tutti coloro che vi si rivolgono in cerca di nuove opportunità.

Abbiamo delineato alcuni scenari che potrebbero causare un rapido incremento del numero dei disagiati, sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in via di sviluppo. Abbiamo spiegato, inoltre, che genere di élite può avere maggiore interesse a nutrirsi delle paure e speranze dei disagiati.Descritti i pericoli, passiamo a proporre alcune soluzioni. Date le tensioni che stanno alla base del problema, la cura miracolosa non esiste. Sollecitare un intervento massiccio dello stato implica il rischio che l’intervento sia manipolato dall’establishment. Invocare la neutralizzazione dello stato significa correre il rischio che l’infrastruttura necessaria rimanga sottosviluppata e che il mercato sia oltremodo esposto a una violenta reazione politica durante l’inevitabile processo di distruzione. L’unica via di uscita è formulare una serie di proposte che possano controllarsi ed equilibrarsi a vicenda in modo tale che lo stato sostenga il funzionamento del mercato, ma senza intromettersi. Ogni proposta, presa singolarmente, può sembrare buona, o anche controproducente. Ma insieme costituiscono una forza a sostegno dei mercati.

Le nostre proposte si fondano su quattro pilastri. In primo luogo, le élite hanno meno capacità a frenare il mercato quando sono più potenti, e meno interesse quando sono più competitive. Quindi è importante garantire che la proprietà non sia concentrata nelle mani di pochi, e che chi la possiede sia capace di utilizzarla in maniera efficiente. In secondo luogo, la competizione crea degli sconfitti. È essenziale disporre di una rete di protezione per i disagiati, che non consenta loro soltanto di superare i periodi ciclici di flessione economica ma che li aiuti a riprendersi dalla perdita completa di una carriera lavorativa. In terzo luogo, è possibile limitare lo spazio di manovra politica mantenendo aperti i confini. Ovviamente, in casi estremi, i confini vengono chiusi forzatamente dai gruppi antimercato, ma è per questo che i quattro pilastri si sostengono l’un l’altro. Infine, il pubblico deve essere reso più consapevole dei benefici che trae dai mercati e degli svantaggi determinati da politiche anticoncorrenziali apparentemente innocue, in modo tale che sia meno disposto a restare passivamente a guardare. Esaminiamo le proposte in dettaglio.

L’establishment e il mercato.
Non possiamo cancellare il dato di fatto che il potere economico si traduce in potere politico. Per quanto buona sia la legge sui finanziamenti elettorali, una certa forma di regola aurea (chi ha l’oro detta le leggi) sarà sempre valida. Ma il legame tra il potere economico e quello politico è particolarmente problematico in due casi. Se il potere economico è concentrato nelle mani di poche élite, queste possono fare affidamento sulla propria influenza politica per raggiungere obiettivi economici e non sentire il bisogno di introdurre regole trasparenti che rendano il mercato accessibile a tutti. Questo rappresenta un problema ben più grave in quei paesi che non dispongono di una solida infrastruttura di mercato, perché gli stimoli a crearla sono di conseguenza ulteriormente ridotti. Ma quando le élite sono inefficienti, non si limitano ad essere indifferenti verso i mercati ma tentano di sopprimere attivamente la competizione per tutelare le proprie posizioni.I due problemi sono correlati. Un esempio può aiutare a fare chiarezza. Il commercio dei diamanti in India è dominato da una piccola comunità di giainisti Palanpuri del Gujarat. Per quasi mezzo secolo questi commercianti hanno lavorato in segretezza, trattando in gran parte con i membri di altre grandi famiglie e senza sottoscrivere contratti legali, per acquistare, tagliare, lucidare e rivendere diamanti in tutto il mondo. Il loro successo è stato enorme, tanto che oggi, nel mondo, nove diamanti su dieci passano dall’India. Il motivo per cui questo sistema ha funzionato finora in un paese con un sistema giuridico scricchiolante è che è fondato sulla fiducia.

La comunità ostracizza chiunque violi gli accordi impliciti tra i commercianti. Il problema, tuttavia, è che gli outsiders non possono prendere parte al sistema, e gli insiders non hanno stimoli a realizzarne uno più trasparente e concorrenziale: è più facile creare fiducia quando i profitti sono abbondanti e il commercio è circoscritto a un piccolo gruppo di persone ben conosciute.La concentrazione del commercio nelle mani di pochi può essere dannosa anche nel caso in cui il sistema smetta di funzionare. E ci sono segnali di questo a mano a mano che il commercio si estende e si rende necessario fare affari con un numero sempre maggiore di outsiders: recentemente uno spedizioniere è scappato trafugando diamanti per un valore di 10 milioni di dollari, e due operatori di Bombay hanno perso tutto il denaro dei loro clienti in speculazioni di Borsa (per la vergogna entrambi si sono tolti la vita). Ma i membri della comunità giainista non accettano volentieri la modernizzazione e la professionalizzazione, per quanto necessarie, perché queste trasformazioni porterebbero anche la concorrenza. Perciò i cambiamenti stanno avvenendo lentamente, forse anche troppo. Il punto è che la concentrazione del potere economico, benché attualmente favorevole, non deve per forza rimanere sempre tale, in particolare se i pochi privilegiati fanno affari a modo loro.

Tutto questo ci indica due obiettivi: impedire l’eccessiva concentrazione del potere economico – obiettivo che riguarda in modo particolare i paesi in via di sviluppo – e fare in modo che chi controlla le risorse economiche sia in grado di usarle efficientemente.I due obiettivi sono spesso, ma non sempre, compatibili. È chiaro, ad esempio, che la politica del sottoporre le imprese alla concorrenza esterna aiuta a mantenerle efficienti: un settore protetto ha ben pochi stimoli a essere competitivo e utilizza le sopravvenienze attive dovute alla posizione privilegiata per ottenere ulteriori protezioni tramite pressioni politiche, anziché a scopi di ristrutturazione. Il modello di automobile indiana Ambassador (una versione della britannica Morris Oxford) fu introdotto sul mercato nel 1957 e venduto quasi senza innovazioni fino al marzo del 2002, per il semplice fatto che per gran parte della sua storia la concorrenza interna è stata irrilevante, e quella straniera inesistente. Anche una cosiddetta cessazione temporanea della disciplina, come nel caso dei recenti dazi sull’acciaio negli Stati Uniti, destinati a scomparire nel giro di pochi anni, rischia di creare élite che, incapaci di competere, si battono per rendere le barriere permanenti.Ma al fine di competere nella giusta misura in un mercato globale, un’impresa di un piccolo paese può finire per rappresentare una fetta consistente della produzione economica del paese. Aziende come Nokia, in Finlandia, hanno un’influenza notevole a livello nazionale. Bisogna vedere se queste aziende usano la propria influenza in maniera responsabile, aiutando a migliorare l’accesso di altri operatori al mercato, o se invece l’utilizzano per restringere l’accesso e monopolizzare le risorse nazionali; questo determina se sia necessario o meno mettere in moto ulteriori strumenti politici.

Antitrust per la politicaUno di questi strumenti è la legislazione antitrust. Le leggi antitrust sono state concepite fino a oggi nel contesto del mercato dei prodotti: i legislatori si domandando se un’azienda assorbe una parte troppo consistente della produzione, se esiste o si sta sviluppando una concorrenza esterna che contribuisca a contenere i prezzi, ecc. Queste leggi sono state utilizzate per impedire alle aziende di monopolizzare interi settori e ricavare dai consumatori profitti sopra la norma. Un ulteriore effetto benefico è che la concorrenza contribuisce a mantenere le imprese competitive impedendo loro di assaporare la vita tranquilla e debilitante tipica del monopolio.Ma è importante che i paesi prendano in considerazione anche l’ipotesi di una versione politica della legge antitrust: una legge che impedisca a un’azienda di crescere al punto tale da esercitare un’influenza sulla politica nazionale ed essere in grado di soffocare le forze del mercato. Elaborare con precisione una legge di questo tipo comporta evidenti problemi, ma negli Stati Uniti è già implicitamente in vigore, in particolare nel settore finanziario. L’attacco di Andrew Jackson alla Second Bank degli Stati Uniti (l’allora banca centrale) negli anni ’30 del XIX secolo, lo smantellamento di Standard Oil del magnate John D. Rockefeller nel 1911, la creazione della Federal Reserve nel 1913 per controbilanciare lo strapotere dei Morgan, il Glass-Steagall Act del 1933 volto ad arginare il potere delle grandi banche nazionali, e le cause in corso contro Microsoft possono considerarsi tutte conseguenze di un’implicita legge antitrust per la politica. C’è il rischio che una legge con queste caratteristiche sia soggetta ad abusi contro chi non è nei favori del governo. Ecco perché ha senso solo come parte integrante della nostra proposta complessiva, che comprende altri strumenti di controllo ed equilibrio sul governo.

L’imposta patrimonialeUna modifica del sistema fiscale offre un’ulteriore possibilità di creare stimoli all’efficienza. Nell’attuale sistema di imposte sul reddito, chi produce di più paga di più. Di conseguenza, i manager efficienti che producono di più devono dividere con lo stato, sotto forma di tasse più elevate, i guadagni addizionali meritati con la propria efficienza. Lo stato, inoltre, assorbe una parte delle perdite dei manager incompetenti (incassando meno tasse). Ma tutto ciò favorisce chi è inefficiente. Chi spreca risorse facendo spese lussuose e stravaganti o chi effettua gli investimenti sbagliati è aiutato dal sistema fiscale che assorbe parte di queste spese o perdite, mentre i manager efficienti risultano penalizzati perché una parte del loro valore aggiunto finisce allo stato.Non tutti i sistemi fiscali hanno tali conseguenze. Un’imposta basata sulla proprietà (e non sul reddito) tende a penalizzare gli inefficienti e premiare gli efficienti. Per capire come, prendiamo in considerazione un’imposta dell’uno per cento su tutti i beni produttivi che una persona possiede direttamente. Su un terreno agricolo del valore di un milione di dollari l’imposta ammonterebbe a 10 000 dollari. Supponiamo che un aspirante scrittore proveniente dalla città e amante della campagna ma non molto abile a coltivare la terra riesca a farla fruttare per soli 5000 dollari in termini di reddito netto. Oltre a versare allo stato tutti i proventi della coltivazione, deve cercare di ricavare altrettanto da qualche altra parte. Se i suoi libri non vendono o non riesce a fare pressioni per ottenere sussidi agli agricoltori, sarà costretto a vendere la terra a qualcuno in grado di coltivarla meglio.

Mettiamolo a confronto con un agricoltore locale che conosce il mestiere e riesce a far fruttare fino a 100000 dollari lo stesso pezzo di terra. Solo un decimo del suo reddito finisce in tasse. E cosa più importante, se riesce a migliorare la produttività dei campi incrementando il proprio reddito a 150 000 dollari, tiene per sé tutti i guadagni aggiuntivi anziché solo una parte di essi come accade in un sistema di imposte sui redditi. Può inoltre espandersi acquistando la terra del dilettante cittadino. Egli non ha il minimo interesse a lottare per i sussidi agli agricoltori o le barriere commerciali contro i prodotti stranieri: i sussidi manterrebbero il dilettante sul mercato impedendo a lui di espandersi, e le barriere commerciali darebbero luogo a provvedimenti simili da parte di altri paesi che ostacolerebbero la vendita all’estero dei suoi prodotti. In tal modo, un’imposta patrimoniale favorisce i produttori efficienti e contribuisce a consolidare le forze favorevoli al mercato.Alcuni lettori potrebbero domandarsi perché un libero mercato fondiario non porti a un’efficiente allocazione delle risorse. In altre parole, per quale motivo il bravo contadino non liquida lo scrittore inefficiente? Il problema è che lo scrittore ricava dalla terra un valore psichico, non monetario, che compensa la sua incompetenza nel coltivarla. Questo reddito psichico non è tassato. Di conseguenza, anche nel caso in cui il reddito psichico dello scrittore non compensi la perdita di quello monetario, il contadino avrà difficoltà a liquidarlo.

Nell’attuale sistema fiscale il reddito psichico è esente da imposte mentre chiunque produca un reddito monetario deve farsi carico dell’onere fiscale. Perciò, a parità di tutti gli altri fattori, il produttore del reddito monetario è disposto a pagare meno per una proprietà rispetto a chi ne ricava un reddito psichico. Analogamente, il regime fiscale attuale sovvenziona la sopravvivenza di uomini d’affari incompetenti che ricavano un vantaggio personale nel dirigere le aziende. Simili inefficienze possono essere evitate passando da imposte sul reddito generato dalla proprietà a una tassa sul valore della proprietà stessa.Esistono certamente alcuni problemi relativi al modo di amministrare un sistema di questo tipo. Ad esempio, come misurare il valore della proprietà? Non è possibile misurarlo sulla base del valore dei beni al momento in cui questi sono sotto il controllo del produttore inefficiente, perché ciò ne farebbe scendere artificialmente il valore e di conseguenza ridurrebbe anche gli oneri fiscali a carico del proprietario. Per evitare di ricompensare l’incompetenza, il valore andrebbe misurato come il valore di mercato di questa proprietà se gestita dal manager medio. Esistono metodi che permettono di fare questa stima con precisione. I problemi legati all’amministrazione di un sistema basato sull’imposta patrimoniale non sono a nostro avviso maggiori rispetto alle complessità che caratterizzano il sistema delle imposte sul reddito.La principale argomentazione contro l’imposta patrimoniale è sempre stata che scoraggerebbe gli investimenti. In presenza di certi presupposti relativi al momento in cui l’imposta è introdotta, in effetti è così: per un dato livello del gettito fiscale, l’imposta patrimoniale diminuisce gli incentivi all’investimento più di quanto non faccia l’imposta sul reddito. Ciò è tuttavia compensato dai vantaggi che un sistema basato sull’imposta patrimoniale offre nell’allocare la proprietà in mani più efficienti, il che contribuisce sia al generale benessere della società, sia alla stabilità del sistema del libero mercato. Perciò appare sensato trasferire almeno parte degli oneri fiscali dal reddito alla proprietà.

Per gentile concessione dell’agenzia Luigi Bernabò Associates

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