sabato 10 maggio 2008

SE IL CLIMA DIVENTA UN ATTO DI FEDE

di Ruth Lea

Essere liberi di parlare — anche quando si è in errore — è il sintomo di una società che sta bene. L'attuale dibattito sui cambiamenti climatici è tipico di una società chiusa così convinta della sua virtù che persino il porre delle domande contrarie alle sue severe credenze equivale a macchiarsi di alto tradimento. Le sfide all'ipotesi oggi in voga hanno come risultato l'offesa nei modi più scorretti di chi ha idee contrarie alla visione corrente. Infatti, la sfortunata persona in questione finisce con l'essere etichettata come "negazionista del cambiamento climatico", un po' come un negazionista dell'Olocausto, tale è il bullismo di certi insulti.

Interrogarsi sull'ipotesi che il cambiamento climatico sia principalmente causato dalla CO2 prodotta dall'uomo, naturalmente non equivale a negarlo. In realtà, il cambiamento climatico è una caratteristica del nostro pianeta sin dalla sua origine. In 4.500 milioni di anni ci sono stati periodi in cui era sensibilmente più freddo e periodi in cui era sensibilmente più caldo di quanto sia oggi. Apparentemente, nel passato più recente, dai 4.000 agli 8.000 anni fa, era più caldo di adesso. Altri periodi caldi sono stati l'era della Roma classica ed il periodo medievale. Tra il XVI al XIX secolo venivano accesi fuochi sul fiume Tamigi completamente ghiacciato ed era tale il freddo negli Anni '70 che gli scienziati prevedevano una nuova era glaciale. Allora si pensava che saremmo morti ghiacciati, ora che moriremo arrostiti. È chiaro che altre variabili al di fuori delle emissioni antropogeniche di anidride guidano il cambiamento climatico.

Gli ambientalisti contro lo sviluppo dei Paesi ricchi qualche anno fa hanno convenientemente scoperto e adottato il surriscaldamento globale come un'arma assai potente in loro possesso per combattere le forze dello sviluppo economico. È davvero straordinaria la loro alta considerazione politica, costruita attraverso visioni apocalittiche di fame e pestilenze se non si smetterà di utilizzare carburanti di origine fossile. Ma quando le più oscure previsioni su un pianeta surriscaldato non si materializzeranno, sicuramente verranno fatte delle domande. E dovremmo allora notare che la temperatura globale non è cresciuta sin dall'entrata nel nuovo millennio e quest'anno molte zone dell'emisfero nord hanno patito un inverno furiosamente freddo. La domanda più esigente sarà sicuramente posta da coloro che hanno dovuto sopportare i costi più alti per "combattere" o "controllare" il cambiamento climatico, attraverso la restrizione delle loro emissioni e il conseguente innalzamento dei costi che ha messo a repentaglio la loro competitività

Nel 1997 il Protocollo di Kyoto è stato siglato da molti Paesi sviluppati (anche se non dagli Stati Uniti), inclusa l'Europa a 15. Il suo obiettivo era di mitigare e controllare il cambiamento climatico attraverso la riduzione delle emissioni di gas serra (GHG), delle quali quelle di anidride carbonica costituiscono la parte più significativa. L'assunto fondamentale su cui si basava Kyoto era che l'ipotesi che vi fosse una connessione tra cambiamento climatico ed emissioni di gas serra fosse inequivocabilmente comprovata daj fatti e che, quindi, riducendo le emissioni il clima sarebbe stato in qualche modo tenuto sotto controllo. Idea scientificamente molto traballante, dal momento che tutti questi assunti non sono mai stati messi in discussione. L'Europa concordò sul taglio delle emissioni dell'8% in cinque anni, tra il 2008 e il 2012, sulla base della comparazione con il 1990.
Il target era ambizioso e rifletteva la volontà dell'UE di essere leader dei sostenitori del Protocollo di Kyoto. In base allo schema del burden sharing europeo, i diversi Stati membri hanno ricevuto vari target di emissione. La Germania, per esempio, ha concordato di tagliare il 21% (percentuale resa possibile dal collasso della maggior parte delle industrie dell'Est dopo la riunificazione) e il Regno Unito il 12.5%. Dall'altro lato, la Spagna ebbe il permesso di incrementare le sue emissioni del 15% e la Grecia del 25%. Dei 12 Stati membri, otto (inclusa la Repubblica Ceca) hanno un target dell'8%, sebbene l'Ungheria e la Polonia hanno un target del 6% e Cipro e Malta non ne hanno alcuno. La disciplina dell'Ue su questi target è stata — a voler essere buoni — quanto meno squilibrata.

Studi recenti dell'Agenzia europea per l'ambiente (Bea) suggerivano un taglio globale per l'Europa a 15 del 2% nel 2005, comparato sulla base dei dati del 1990. In realtà, l'Eea ha concluso che solo 3 Paesi su 15 avevano la possibilità di raggiungere i loro obiettivi utilizzando le misure esistenti: la Gran Bretagna, la Germania e la Svezia. Se, però, fosse stato autorizzato l'utilizzo programmato di stabilizzatori del carbone e i "meccanismi" di Kyoto, allora altri 5 Paesi avrebbero potuto raggiungere gli obiettivi, ossia il Belgio, la Finlandia, la Francia, il Lussemburgo e l'Olanda. I restanti 7, in ogni caso, non ci sarebbero riusciti e nemmeno l'Europa, nella sua interezza, avrebbe raggiunto l'obiettivo totale.

Nonostante gli scarsi risultati di molti Paesi europei nel raggiungere gli obiettivi di Kyoto, il Consiglio Ue ha deciso a marzo 2007 che l'Europa si sarebbe rigorosamente impegnata a realizzare almeno il 20% delle riduzioni di gas serra per il 2020. Se questo target verrà raggiunto è, naturalmente, lasciato a stime personali, ma ci si perdoni un po' di cinismo. Su questa stessa scia, il Consiglio europeo ha avallato un obiettivo anche più alto, del taglio del 30% entro il 2020, a condizione che gli altri Paesi in più avanzata via di sviluppo si adeguino alle stesse percentuali di riduzione e che quelli economicamente più avanzati contribuiscano adeguatamente, secondo le loro responsabilità e rispettive possibilità. Almeno, questo obiettivo così ambizioso riconosce tacitamente gli effetti potenzialmente avversi in termini di competitivita se si impongono tagli draconiani quando alcuni Paesi ad alta emissione, non ultimi Cina ed India, hanno intenzione di ignorare ogni appello per ridurre le loro emissioni.

Cina ed India, comprensibilmente, non vedono il motivo per cui dovrebbero frenare il loro sviluppo economico per amore di un'ipotesi non provata dai fatti. Come parte del processo di riduzione delle emissioni di Kyoto, l'Ue ha formulato l'Ets, ossia lo Schema per il Commercio delle emissioni, che e in sostanza un mercato per vendere "inquinamento" da CO2. L'Ets è uno schema di "cappello e commercio". Teoricamente, infatti, fissa un tetto alla quantità totale di CO2 che alcune industrie possono produrre e autorizza le varie aziende a "commerciare" le quote di emissione all'interno del mercato europeo. L'Ets è operativo da gennaio 2005; la prima fase si è conclusa nel 2007.

Lo schema potrebbe funzionare con successo se non fosse che la prima fase ha attirato tutta una serie di critiche. Il problema principale ha riguardato l'allocazione dei permessi agli Stati membri. Apparentemente, ai governi è stata lasciata libertà di scegliere i propri target, con poche restrizioni da parte della Commissione. Alcuni, inclusa la Gran Bretagna, hanno fissato target molto severi, mentre altri Stati, come la Germania, non hanno seguito lo stesso rigore. In più, c'è da dire che lo schema non ha affatto contribuito alla riduzione delle emissioni. La seconda fase, dal 2008 al 2012, naturalmente è già iniziata

La Commissione dichiara che sarà più intransigente e più giusta della prima, a causa della sua insistenza nell'aver posto un freno ad una sovra-allocazione di permessi. Ma c'è il rischio provato che la seconda fase possa essere altrettanto difettosa, anche se per motivi diversi. Queste ragioni si riferiscono al fatto che gli Stati membri non sono autorizzati ad "importare" crediti esterni a Kyoto dai Paesi in via di sviluppo al fine di raggiungere i loro target sulle emissioni. Il rischio è che alcuni di questi crediti non solo saranno scorretti, per non dire fraudolenti, ma potrebbero anche essere generati da progetti in Paesi in via di sviluppo che comunque sarebbero accaduti.

Concludendo, l'approccio di Kyoto di avere il controllo del cambiamento climatico, guidato da ambientalisti contrari allo sviluppo è così accuratamente scorretto che alla fine fallirà. I perdenti nell'esperimento politico mal consigliato di Kyoto saranno quegli Stati membri dell'Europa, e ogni Paese non Ue, che hanno accettato l'agenda di Kyoto e quindi adottato target per una dura e costosa riduzione delle emissioni. La Gran Bretagna è uno di questi Stati membri.

«Negli ultimi anni, ho assistito con sempre maggiore preoccupazione alle grida di “al lupo al lupo” lanciate dagli allarmisti del clima, che hanno spinto i governi europei a impegnarsi per ridurre drasticamente le emissioni di CO2, senza curarsi dei costi economici. (...) Ma considerando che il riscaldamento produce anche benefici oltre che costi, è tutt'altro che pacifico che il previsto incremento della temperatura, possa arrecare un danno alla popolazione mondiale. Invece, rallentare la crescita economica e ricadere nel protezionismo, passando a fonti energetiche a emissioni zero ma molto più costose, sarebbe estremamente oneroso e procurerebbe molti danni all'economia mondiale»
Nìgel Lawson - ex cancelliere dello Scacchiere Il Sole 24 Ore, 13 aprile 2008

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